Con lui in trincea un esercito di donne

L'uomo che divise l'Italia: inteneriva per la sua aria da eterno bamboccione L'uomo che divise l'Italia: inteneriva per la sua aria da eterno bamboccione Con lui in trincea un esercito di donne PER l'esercito degli innocentisti, quelle di Raoul Ghiani erano mani grandi, forti, da lavoratore e la faccia era da «bravo ragazzo» e i modi tanto impacciati da rivelare, non un'indole criminale, ma una forte propensione al mammismo, uno stare attaccato alle gonne di Clotilde Guatteri, la madre appunto che divideva con lui, ormai ventisettenne, un appartamentino a Porta Genova, in un quartiere della Milano piccolo borghese ai bordi, allora, della periferia. Per i colpevolisti, quelle mani erano da assassino, da strangolatore su commissione, come sentenziarono per tre volte i giudici, e quel viso, un po' molle, aveva la freddezza del sicario e l'impaccio, le timidezze erano una recita. Innocentisti e colpevolisti dell'ultimo caso giudiziario che davvero divise verticalmente l'opinione pubblica si batterono anche sul piano assai letterario delle apparenze fisiche, dello psicologismo. Nessuno si scaldò tanto per Fenaroli, il mandante: non ispirava simpatia. Ma l'esperto in congegni bancari, l'elettrotecnico Ghiani, un po' per la prestanza, un po' per quell'aria eternamente da bamboccione, intenerì le donne, le mamme e le fidanzate che avevano da poco mollato l'osso dello scandalo Montesi. Nel partito degli innocentisti non militavano solo le donne. Si era schierata a favore di Ghiani una larga fetta della stampa dall'ormai fascistico «Candido», al settimanale «Gente», al quotidiano del pei, «l'Unità». Fu allora che i giornali inventarono le controinchieste. Il Paese era entrato nella stagione del miracolo economico: 81 italiani su mille avevano il televisore; otto su cento l'automobile; era diminuito del 65 per cento il consuno di polenta e fagioli, mentre era raddoppiato quello della carne; il triangolo industriale stava scopren¬ do la «settimana corta» e il week end. Ma erano ancora pochi quelli che se la passavano discretamente, pochissimi quelli che potevano godersi, se non la «dolce vita» (in quel 1958, si spogliò Aiché Nana), il semplice, embrionale benessere. Era ancora un'Italia di esistenze tirate con i denti e un giallo di vita vissuta, così fosco, così irto di indizi e di controprove era un bel tema da osteria e di chiacchiere da tinello, un buon antidoto contro la noia di serate che, per gli uomini, erano orfane del rito di una capatina a casino: il delitto Fenaroli è del 10 settembre, dieci giorni prima dei sigilli alle «maisons». Oltretutto quello era un giallo moderno, in linea con una società che si lasciava alle spalle il mondo contadino. Moderno perché, secondo l'accusa, tutto all'insegna di ima velocissima auto (un mito di quegli anni, la Giulietta TI ), di un aereo Milano-Roma dalla Malpensa e di un «wagon-lit» per tornare nella notte, un «wagon-lit» nella tradizione di Agatha Christie. Per oltre due anni, il caso tenne monopolisticamente il proscenio della cronaca di quell'Italia che pure aveva seppellito un Papa, Pio XII, era stata affascinata da Giovanni XXIII, si era schierata per Giovan Battista Meneghini che Maria Callas aveva fatto becco con Onassis. Il 2 aprile 1961, il «feuilleton noir» approdò nell'aula della corte d'assise di Roma, in un clima da opposte tifoserie allo stadio. Due mesi di udienze al calor bianco e, all'alba dell' 11 giugno, la sentenza, attesa da migliaia di persone che affollavano il Palazzaccio e piazza Cavour: ergastolo. Ma innocentisti e colpevolisti non mollarono le rispettive trincee. Una storia infinita che ora si riaccende. Guido Vergarli

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