Allah e Kalashnikov, la pace di Kabul

Allah e Kalashnikov, la pai© di Kabul Allah e Kalashnikov, la pai© di Kabul Alle porte della capitale controllata dagli «studenti» JALALABAD DAL NOSTRO INVIATO Il Khyber Pass, assurto a notorietà mondiale nel secolo scorso grazie ai corrispondenti di guerra britannici e alla ricca letteratura coloniale, è meno fascinoso di quanto si pensi: poco più che colline, aride come tutto il resto di questa terra che è solo dei pashtun e dove le leggi degli Stati, afghano o pakistano che siano, vigono solo ed esclusivamente sulle carreggiate d'asfalto delle poche strade. Basta mettere piede sulla terra pietrosa del ciglio e subito ti trovi sotto l'usbergo, o la tirannia, della legge tribale. Per questo, in tempi di torbidi come in quelli di pace, il visto pakistano sul passaporto vale poco o niente per attraversare lo Stato del Pashtunistan, tanto inesistente sulle carte quanto silenziosamente presente sul terreno. Passare significa avere un permesso particolare ed essere tutelati specialmente da un «accompagnatore» di Peshawar, col consenso dell'«home office» e delle tribù pashtun lungo il tragitto. Così si entra in Afghanistan via terra: alla ventura, anche se i documenti sono teoricamente tutti in regola. Il resto, se sei fortunato, lo farà l'ospitalità contadina per cui al viandante che viene in pace non si nega un pezzo di pane, una tazza di tè verde e un tetto per ripararsi dal freddo delle montagne che incombono da ogni parta come sentinelle lunari. Anche qui a Jalalabad la guerra sembra lontana. Lungo questa direttrice i Taleban dominano incontrastati l'intero altopiano e la città sembra tranquilla. Ma tutti ascoltano le radio straniere, la Bbc in particolare, che danno notizie di combattimenti in corso a Ovest e Nord. I Taleban sarebbero sotto pressione sia lungo la strada che da Kabul porta al passo di Salang, sia nella direttrice che da Kabul conduce alla valle del Panshir, dov'è trincerato Ahmad Shah Massud. Notizie contraddittorie e insicure, che parlano di un ripiegamento dei Taleban di una cinquantina di chilometri al di sotto del tunnel di Salang e di una doppia offensiva del «Leone del Panshir» che avrebbe impegnato severamente i Taleban a 77 chilometri dalla capitale, vicino al villaggio di Jabul Saraj. Dicono che avvicinarsi alla zona della base di Bagram, il colosso militare costruito dai sovietici e ora in mano ai Taleban, sia ora impossibile a causa dei combattimenti. Si vedrà man mano che procederemo verso Kabul. Dove invece, è certo, stanno arrivando rinforzi a migliaia dal santuario Taleban di Kandahar. La notte di Jalalabad è silenziosa come poche. Nell'87, la prima volta che ci venni e ci dormii, si sentivano nel buio i grandi ansiti asmatici delle postazioni sovietiche grad che martellavano da lontano i fianchi dell'immensa conca in cui giace Kabul. Sarà che le batterie russe non ci sono più, sarà che i Taleban hanno davvero sgominato i nemici, ma Jalalabad è tornata ad essere il grande borgo contadino e commerciale che era. Mi è difficile misurare il polso della situazione, del consenso o del dissenso. E non mi piace - perché di solito è una cosa priva di senso e dal contenuto informativo nullo - fare come i colleghi anglosassoni che intervistano i passanti e riportano frasi e battute come campioni di prova. Non funziona neanche a Filadelfia, figuriamoci a Jalalabad, con il filtro di un interprete e la paura che stringe le menti, e la cultura così diversa della politica, del potere, di tutto. Ripenso alla serata trascorsa con Abdul Haq, così poco «islamico», così disincantato e acuto e "U'analisi politica, così «europeo» a prima vista, ma che considera normale mangiare in una stanza con gli ospiti e lasciare la moglie in un'altra stanza, senza neppure presentartela, e che congeda i cinque bellissimi figli per la buona notte facendosi baciare la mano come sudditi con il loro sovrano. Una serata di rievocazioni, forse insolita anche per lui, per l'ex comandante di Kabul che elaborò i piani della sua con¬ quista e che se li vide violare da Massud ed Hekmatiar in lotta tra loro per dividersi la capitale come fosse stata una torta. «Fin dall'inizio fu chiaro che la pace non sarebbe venuta», aveva detto scuotendo la testa quasi calva e il collo taurino. Poi aveva tirato fuori una cartella verde piena di documenti preziosi che farebbero gola a molti storici e che ancora bruciano. Lettera ad ambasciatori americani, a Jimmy Carter, ad alte autorità pakistane: state attenti che allevate con le vostre mani un estremismo islamico che diventerà pericoloso innanzitutto per voi. Lo avevo interrotto: vuol dire che adesso gli Stati Uniti ripetono lo stesso errore? «In un certo senso sì. Anche se i Taleban sono una reazione all'uso improprio dell'Islam, che si manifesta anch'essa in forme improprie. Voglio dire che capisco il desiderio di ripristinare la legge dell'Islam dopo che una guerra santa è stata guidata contro l'infedele da uomini che erano corrotti e impuri. Ma per esempio io non credo affatto che i Taleban siano espansionisti e vogliano esportare il loro specifico fondamentalismo fuori dai confini afghani. Le preoccupazioni russe e tagike in questo senso sono infondate. Altre sono invece fondate...». La conversazione si era fatta serrata. Abdul Haq aveva aperto sulla tavola una grande mappa: segnati in nero continuo e tratteggiato i futuri oleodotti e gasdotti che dovrebbero portare petrolio e gas dell'Asia Centrale all'imboccatura del Golfo Persico a partire dal Turkmenistan, attraverso l'Afghanistan. «Si può facilmente immaginare alcune cose. Le grandi compagnie che fanno questi progetti sono americane e saudite. E' logico che interessi loro un . J^'.iistan pacificato e controllabile. Se i Taleban sono capaci di farlo, perché non aiutarli? Nello stesso tempo questi oleodotti sottrarrebbero alla Russia una quota enorme d'influenza sulle risorse dell'area più ricca del mondo. E miliardi di dollari andrebbero ad altri destinatari. Infine, ma non ultimo: una soluzione del genere avvantaggerebbe il Pakistan e gli Usa a danno dell'Iran. Ovvio che gli interessi delle compagnie coincidano qui con quelli dei loro governi...». Insomma i Taleban come una forza pilotata da colossali interessi esterni? «Anche la guerra contro i sovietici lo era. Sempre l'Afghanistan è stato teatro di conflitti più grandi: interessi di Pakistan contro India e viceversa, di Russia contro Occidente e viceversa, di America e sauditi contro l'Iran e viceversa. Adesso gli interessi sono mille volte maggiori. Eppure sarebbe un grave errore sottovalutare la forza intrinseca, afghana, dei Taleban». S'è scritto che in realtà vengono dal Pakistan, avevo obiettato. Abdul Haq si era stretto nelle sue larghe spalle: «Possibile, anzi certo. Ma semplicemente perché in Afghanistan non ci sono più da tempo scuole di culto dove s'insegna la dottrina islamica a livello superiore. Anche questo dice quanto poco fossero islamici Massud ed Hekmatiar...». Aspettare e vedere come si evolvono, dunque? Considerare la chiusura delle scuole femminili come una malattia infantile estremista del fondamentalismo taleban? Abdul Haq aveva sorriso socchiudendo gli occhi: «La gente li accoglie bene perché sono una speranza. Quando arrivano loro cessano le ruberie e le violenze. Portano ordine, ed è un bene. E portano un eccesso di regole, ed è un male. Ma l'Occidente vede solo le scuole femminili chiuse e il velo alle donne. E sono mali, ma che vanno visti sullo sfondo della distruzione totale delle scuole e della cultura. Neanche i sovietici avevano distrutto tanto. Come si fa a difendere il diritto alla cultura delle donne quando quel diritto è calpestato per tutti?». Domani si cerca di arrivare a Kabul e di vedere cosa fanno i Taleban come amministratori. E come combattono in guerra. Giulietta Chiesa «Le compagnie petrolifere premiano chiunque sia capace di normalizzate» «Nel Paese lo scontro vero è tra Pakistan e India, tra la Russia e l'Occidente» Proabbun a SuSotSha Profughi che abbandonano un sobborgo a Sud di Kabul Sotto, Ahmad Shah Massud.