Quarant'anni fa i carri armati sovietici schiacciavano nel sangue la rivolta di Budapest Ungheria L'utopia spezzata

Quarant'anni fa i carri armati sovietici schiacciavano nel sangue la rivolta di Budapest Quarant'anni fa i carri armati sovietici schiacciavano nel sangue la rivolta di Budapest y-S*^ in Europa» •|jlELLA valanga di comme\\ morazioni di avvenimenti w storici importanti che si 1 succedono in questa fine se.ilAjcdIo, sarebbe ingiusto dimenticare il 40° anniversario della Rivoluzione ungherese del 1956. Di corta durata e rapidamente repressa dalla superpotenza sovietica, questa prima - e unica - rivoluzione nazionale e popolare antitotalitaria in Europa ebbe, bomba a scoppio ritardato, effetti considerevoli sull'evoluzione dei mondo comunista e dell'equilibrio mondiale. Dopo lo scisma titoista del '48, i moti di Berlino (giugno '53), la rivolta operaia di Poznan (giugno '56), dopo le rivelazioni di Krusciov sui crimini di Stalin al XX Congresso del pcus, l'insurrezione ungherese andava a colpire pesantemente il mito della progressività pacifica e dell'irreversibilità del sistema sovietico, che ne risultò seriamente scosso. Di fatto, la tragedia del '56 avrebbe avuto un felice epilogo nell'89. Il sangue della gioventù ungherese non era stato versato invano. L'avvenimento sorprese. Eppure era possibile cogliere avvisi di tempesta dall'agitazione di scrittori, giornalisti, studenti, che - incoraggiati dal disgelo in Urss - reclamavano più libertà e giustizia. In realtà, la destalinizzazione cominciò in Ungheria più presto che a Mosca e nel resto dell'Impero. Alla morte di Stalin, i suoi successori si resero conto che lo scontento, dovuto alla penuria alimentare e al terrore poliziesco, aveva raggiunto un livello tale che rischiava di provocare esplosioni. Così, sotto la spinta di Beria fu nominato primo ministro ungherese Imre Nagy, che aveva passato qualche guaio per le sue visioni «bukariniste» e l'ostilità alla collettivizzazione agraria. Tra l'estate '53 e la fine '54 Nagy - che non aveva le mani libere, perché il sinistro Ràkosi, protetto di Molotov, dirigeva il partito - fece smantellare i campi d'internamento, alleggerì la censura, fece gesti di conciliazione verso la Chiesa, rilanciò l'industria leggera. Per due anni l'Ungheria respirò. Il disgelo ungherese raggiunse gli intellettuali e gli studenti polacchi. Ma alla fine del '55 Ràkosi estromise Nagy, denunciandolo come opportunista e revisionista. Il ritorno all'autoritarismo staliniano era in contraddizione con l'orientamento della politica sovietica di Krusciov, che aveva moltiplicato i gesti di buona volontà nei confronti dell'Occidente: tono conciliante al summit di Ginevra, firma del Trattato di Stato con l'Austria e, fatto che impressionò l'opinione pubblica ungherese, ria- bilitazione di Tito. Il che equivaleva al riconoscimento di un comunismo indipendente da Mosca. Di conseguenza, gli intellettuali ungheresi, come quelli polacchi, non si lasciarono più intimidire, sfidarono la censura, reclamarono il ritono di Nagy al potere. Un'opposizione più moderata si organizzò all'interno del Partito, intorno a Janos Kàdàr, ex capo della resistenza antinazista, vittima di Stalin. Fu sotto l'influenza di Molotov e Kaganovic al Cremlino che - quando il Presidium decise nel giugno '56 di allontanare Ràkosi - in testa al Partito ungherese fu posto Ernest Gero, burocrate staliniano, e presidente del Consiglio fu nominato Andras Hegedùs, creatura di Ràkosi. Questo finto cambiamento fu accolto dall'opinione pubblica come una provocazione. Gli emissari del Cremlino a Budapest, il generale Serov presidente del Kgb, l'ambasciatore Andropov (futuro primo segretario sovietico), inviavano a Mosca rapporti allarmistici. La scintilla verme dalla Polonia, dove il Cremlino si rassegnò al fatto che Gomulka, candidato dei comunisti revisionisti, venisse portato al potere. Questo successo dell'opposizione anti-stalmiana, dai colori nazionali, suscitò un entusiasmo indescrivibile a Budapest. Il 23 ottobre gli intellettuali e la gioventù universitaria organizzarono una manifestazione di solidarietà con la Polonia, di un'ampiezza senza precedenti. Le parole d'ordine erano: ritorno di Nagy, democratizzazione, misure per migliorare il livello di vita. Un discorso radiofonico di Gero, che chiamava fascisti i manifestanti, il rifiuto della Radio di diffondere il Manifesto degli studenti, diedero fuoco alle polveri. I disordini avrebbero potuto essere domati dalla polizia pesantemente annata che schierava a Budapest settemila uomini, se Gero e i suoi non avessero perso la testa e fatto appello ai carri armati sovietici che stazionavano vicino alla capitale. Solo quando la folla, che aveva già divelto la statua di Stalin, li vide arrivare, gli scontri divennero insurrezione. L'esercito ungherese, chiamato dalla polizia, fraternizzò con gli insorti, operai accorsi dalla periferia si unirono agli studenti, saccheggiarono i depositi d'armi delle caserme, s'impadronirono di mezzi corazzati. Dietro consiglio di Mikoyan e di Suslov, arrivati precipitosamente a Budapest, fu chiamato Nagy. Troppo tardi. Invano Nagy rifiutò di firmare l'appello all'intervento sovietico, gli insorti non ne furono informati. L'insurrezione si propagò nel Paese come l'incendio d'una foresta. Sfidando le unità corazzate russe, impreparate al combattimento di strada, i giovani insorti si sentirono presto vincitori d'uno degli eserciti più potenti d'Europa. Credendosi protetti dalla simpatia dell'opinione mondiale, incitati dagli appelli estremisti irresponsabili della Radio Europa Libera che istigavano a scacciare i comunisti, essi organizzarono comitati rivoluzionari e consigli operai. Gli insorti guadagnarono la prima battaglia. I sovietici si videro costretti a ritirare le truppe, mentre Nagy, sbarazzatosi dell'entourage staliniano, s'impose poco a poco come interlocutore tra l'Ungheria rivoluzionaria e il Grande Usurpatore. Per qualche giorno, sembrò che ci fosse qualche possibilità di compromesso. Il Cremlino era diviso tra falchi e colombe. Krusciov cercava di arbitrare il dibattito. Temeva reazioni occidentali, avendo preso sul serio le spacconate di John Fostor Dulles, che aveva vinto le elezioni del '52 per Eisenhower, predicando la crociata anti-totalitaria e sostituendo il concetto di «contenimento» con quello di «rimozione» dei sovietici. Le inquietudini di Krusciov vennero rapidamente dissipate, non solo dai segni di divisione tra gli occidentali sull'affare di Suez, scoppiato nel frattempo, ma anche dai messaggi di Washington, che lasciavano capire: «L'Ungheria è un vostro affare di famiglia, noi non ci immischiamo. La vostra interpretazione degli accordi di Yalta resta sempre valida». 1 documenti usciti dagli archivi sovietici confermano che Krusciov pensava di poter convincere i suoi colleghi del Cremlino a una soluzione politica sul modello di quella che egli realizzò con la Polonia di Gomulka e che garantiva la conservazione dell'egemonia sovietica sul Paese. Ma la possibilità di una soluzione del genere era esclusa in Ungheria; le rivendicazioni della rivoluzione alla fine eh ottobre superavano il limite che avrebbe permesso a Krusciov di ottenere il consenso non solo del Presidium sovietico, ma anche quello di Mao Zedong, la cui influenza nel movimento internazionale, morto Stalin, si era considerevolmente accresciuta. Ora, né Mao, né lo stesso Tito, che nella prima fase della rivoluzione sembrava sostenere Nagy, volevano rassegnarsi alla trasformazione di una dittatura comunista in democrazia parlamentare. Cosa che invece Nagy proclamava sotto la pressione degli insorti, contemporaneamente all'uscita dell'Ungheria dal Patto di Vai-savia. La tragedia fu che Nagy aveva creduto fino in fondo, fino al patibolo, che, se gliene avessero lasciato il tempo, avrebbe potuto risolvere il conflitto senza portare danno ai veri interessi vitali dell'Urss e risparmiando al suo Paese la catastrofe di un intervento militare. Si accusava Nagy di ingenuità. Si dovettero attendere 33 anni perché anche i dirigenti del Cremlino capissero che gli ingenui del '56 erano stati in realtà dei precursori. Disse Henry Kissinger: «Durante l'insurrezione ungherese (...) l'America e i suoi alleati si comportarono da spettatori, come se l'esito della storia non li riguardasse». L'Italia fece eccezione proponendo la rottura diplomatica con l'Urss per sanzionare l'intervento. Ma non fu ascoltata. Francois Fejtò «Prima e unica rivoluzione nazionale, popolare e antitotalitaria «Quella tragedia ha avuto un epilogo felice: nell'89» «L'ingenuità di Nagy e le ambiguità dell'Occidente» y-S*^ Nella foto qui a fianco un'immagine della rivolta: insorti nelle strade di Budapest. Francois Fejtò