Un grido dopo 20 di sangue e silenzio di Domenico Quirico

I Un grido dopo 20 di sangue e silenzio LA COSCIENZA SPORCA DELL'OCCIDENTE I signori del Nobel, così istituzionalmente banali nelle scelte, virtuosi del rischio calcolato, teorici del bilancino per non scontentare nessuno, questa volta hanno avuto coraggio. Più del Papa, per esempio, che, quando ha visitato Timor, ha avvolto dentro la scorza di una pastorale cautela la realtà bruciante di un genocidio. Più coraggio dell'Orni, che ha sempre chiuso gli occhi barricandosi dietro una tartufesca «profonda preoccupazione», per dribblare qualsiasi condanna del regime di Giakarta. Per non parlare dei Paesi, piccoli e grandi, dagli Stati Uniti all'Italia, che continuano a fare affari (come vendere armi per esempio) con l'Indonesia. Finalmente un Nobel della pace che pesa, che stride, che tira fuori una tragedia dalla feroce beatitudine degli indifferenti; non una targhetta da appendere a vicende già opportuna¬ mente concluse. Da una parte c'è un'isola ricca solo di un po' di caffè e di sandalo odoroso, 700 mila persone dimenticate con il loro cattolicesimo esotico in una piega del tempo dell'Asia. Dall'altra l'Indonesia musulmana con 200 milioni di abitanti, 13 mila isole distese tra due universi, l'Asia e il Pacifico, una cassaforte di materie prime, dragone armato di un tasso di crescita che nel Duemila ne farà uno dei primi dieci giganti economici del mondo. L'Occidente è arrivato a Timor nel '500, quando sulle calde onde dell'oceano scivolavano in vantaggio su tutti i galeoni di Lisbona. Metà dell'isola (l'altra fu occupata dagli olandesi) annodò così il suo destino al Portogallo; un colonizzatore che aveva rapidamente archiviato le mitologie imperiali per pensare, come un droghiere, solo ai guadagni immediati. I portoghesi, con il loro piccolo business fatto di caffè e di sandalo, restarono aggrappati a Timor (come a Goa e a Macao) anche quando il loro impero negligente cadde a pezzi. Fino al '74, quando anche i portoghesi trovarono una occupazione, la rivoluzione dei garofani, e decisero di potare il loro passato. Il 28 novembre del '75 il Fretilin, il partito degli indipendentisti, proclamò l'indipendenza, troncando le discussioni con la minoranza che proponeva l'integrazione con l'Indonesia. La sera del 6 dicembre dall'aeroporto di Giakarta si alzò in volo l'Air Force One con a bordo il presidente americano Ford e Henry Kissinger. Il padrone dell'Indonesia per delega dei militari, Suharto, attese, con cortesia orientale, che l'aereo fosse scomparso verso il chiarore dell'Occidente. Poi ordinò alle truppe di invadere l'isola. In questi venti anni, squarciati ora dal Nobel, stanno stipate molte cose, perché Giakarta le ha provate tutte. Ha cercato di islamizzare la popolazione costruendo un tappeto di moschee che sono rimaste desoiatemente vuote; poi è passata alla «indonesizzazione», obbligando la gente a studiare il bahasa. Un altro fiasco. Ha copiato il Vietnam, creando «villaggi strategici» dove la popolazione è condotta sotto la minaccia dei fucili e costretta a fare la fame. Le terre ricche lasciate libere vengono assegnate a coloni fatti arrivare da Bali e da altre isole. Un fallimento, ma punteggiato da 200 mila morti, un terzo della popolazione dell'isola. Per Suharto, vecchio despota in declino, Timor non è solo il punto d'onore di un nazionalismo permaloso. E' una sfida essenziale per sopravvivere. Nel più popoloso Paese musulmano del mondo, finora al vecchio satrapo per dominare è bastata la «pancasila», una filosofia politica basata sulla «democrazia», ma con la postilla che bisogna sempre obbedire alla «saggezza dei rappresentanti del popolo». A Giakarta (come a Singapore, a Seul, negli altri miracoli economici asiatici), si può parlare di sviluppo, di esportazioni, di business, non di politica. La «pancasila» non basta più, la gente scende in piazza, critica la corruzione, vuole la testa dei miliardari di regime, dubita che l'autoritarismo sia una condizione dello sviluppo economico. Allora Suharto ha cominciato a accarezzare il fondamentalismo: caccia i cristiani dai posti di potere, chiude un occhio sui pogrom anticinesi e anticristiani. E, naturalmente, annienta i tenaci infedeli di Timor Est. Domenico Quirico

Persone citate: Henry Kissinger, Suharto