E l'uomo scimmia ci sedusse tutti

la memoria. Morto Roy Lewis, autore inglese di un caso letterario molto italiano la memoria. Morto Roy Lewis, autore inglese di un caso letterario molto italiano E l'uomo scimmia ci sedusse tutti Un libro esilarante sul Pleistocene con guai politici del mondo d'oggi MAGIA di un titolo: The evolution man divenne, trent'anni dopo, II più grande uomo scimmia del Pleistocene, e fu il successo. Nel '92 scalò le classifiche italiane, fu un libro di culto che vendette, per Adelphi, quasi duecentomila copie, e finì per entrare nel linguaggio, divenne quasi un modo dire. Ora il suo autore è morto. Si chiamava Roy Lewis, aveva 76 anni e una lunga vita di viaggiatore, scrittore e giornalista alle spalle. Anche avventuriero, a suo modo: da consigliere del governo del Nuovo Galles del Sud, in Australia, ad agente di approvvigionamento in India per conto del governo cinese, a rappresentante di Ciang Gai Shek fino al '46, quanto tornò al giornalismo distillando libri di viaggio e corrispondenze, con quel tono sapientemente svagato che sembra una particolarità quasi «etnica» degli scrittori inglesi. Il suo libro, che secondo una testimonianza del biochimico Jacques Monod aveva provocato all'illustre scienziato, causa risate, una caduta dal cammello nel bel mezzo del Sahara, era nella più pura tradizione di un Woodehouse, corretta con una buona conoscenza scientifica e una affabile attitudine da divulgatore: una formula che si rivelò irrestibile nell'Italia degli anni '90, e molto meno nell'Inghilterra dei '60, quando uscì per la prima volta, passando sotto silenzio. Forse gli inglesi erano abituati troppo bene. Non vennero, nel 1960, neppure sfiorati i futuri entusiasmi del francese Monod, per non parlare di quelli dello scrittore di fantasy Terry Pratchett che ebbe a distillare, nella prefazione alla versione italiana, una notevole parola di saggezza: sostenendo in sostanza che quel libro era uno dei più divertenti negli ultimi 500 mila anni - cioè dal Pleistocene ad oggi - e in secondo luogo assai istruttivo. Perché spiegava come «i proble¬ Una scuola di tanti colori Mi è piaciuto moltissimo l'articolo di Nico Orengo del 3 ottobre, sulla necessità di insegnare l'italiano, seguito a ruota da Rai 1. Sono una vecchia insegnante di tedesco e non avete idea di come mi fosse penoso constatare ogni giorno l'ignoranza della lingua madre nei miei allievi. Una volta che in Università (tenni per 3 anni i corsi di lingua nella facoltà di Magris) si parlava del Settembre Pedagogico torinese, una benemerita iniziativa della quale si parlò per anni in tutta Italia, il professor Dianzani se ne uscì a dire: «Si accusano i medici di non conoscere l'italiano, ma chi glielo ha mai insegnato?». E' vero, a nessun livello, né alla media né alle superiori, si insegnano struttura e meccanismi dell'italiano. Pensate che a me, insegnante di tedesco in un istituto tecnico, i miei allievi chiedevano di spiegare significato e differenze tra preposizione, congiunzione e avverbio, e non già per la mia materia, ma per... italiano! Insegnavo a redigere, in italiano oltre che in tedesco, lettere commerciali, curriculum vitae, verbali. Incontro ancora ex allievi che mi ringraziano di certi suggerimenti pratici. Che differenza tra le nostre scuole e quelle straniere per quel che concerne lo studio della lingua materna! Basta andare in Alto Adige per capire tante cose sulla trascuratezza e superficialità degli insegnanti lassù definiti sbrigativamente «italiani», definizione che preferisco interpretare come restrittiva e non denigratoria. Facevo parte di una équipe ministeriale di aggiornatoli proprio per gli insegnanti di italiano presso le scuole di lingua madre tedesca, e... ne ho viste di tutti i colori. Antonietta Zucchino, Alassio Veneti e lombardi in lotta con gli Asburgo A proposito della «passeggiata» di Bossi lungo il Po, ho potuto accertare che le guerre d'indipendenza furono combattute fra italiani del mi del progresso non sono incominciati con l'era atomica ma con l'esigenza di cucinare senza essere cucinati». Il più grande uomo scimmia del Pleistocene è infatti un esilarante romanzo antropologico. Narra la storia dei nostri antenati, divisi tra di loro su vari problemi di non poco conto, in una remota plaga africana: se scendere dagli alberi, se usare il fuoco, se abbandonare le foreste per le savane. Ma i protagonisti parlano proprio come una famigliola della middle class inglese, e i loro nomi tono quelli di oggi. Lo zio che rifiuta il progresso, con argomenti di taglio ecologista, si chiama Vania, zio Vania, e già il riferimento a Cechov per tanto scimmione è esilarante. Gli altri sono Mildred, Wilbur, Pamela, papà Edward, ed hanno il buon senso anche pensoso di una bella famiglia dell'Occidente evoluto ma non ancora esasperatamente consumista. Emergenti, con giudizio. Istruiti, dotati di buon senso, di sobrietà e di moderzione: forse più antichi, agli occhi di noi lettori d'oggi, degli stessi uomini scimmia. Forse il successo di Lewis nell'Italia del '92 dimostra, come qualche amante del paradosso deve avere autorevolmente osservato, che è passato più tempo in trenta che in cinquecentomila anni. Come scrissero Frutterò & Lucentini, quel libro usava in modo egregio l'anacronismo a scopi comici in letteratura. Ma era a sua volta, e proprio a causa della coincidenza del successo involontariamente posticipato, esso stesso un piccolo, delizioso anacronismo. La riprova? Il secondo libro ristampato da Adelphi, L'ultimo re socialista, un apologo politico, ebbe una accoglienza buona ma non travolgente come il primo. Magia di un titolo o nostalgia della scimmia gentiluomo che sonnecchia in ognuno di noi? Mario Baudino LETTERE AL GIORN Roy Lewis. Nel '92 la traduzione italiana, col titolo «Il più grande uomo scimmia del Pleistocene» del suo romanzo uscito nel '60 fu un grande best seller vallo o il serpente. Eppure non hanno coscienza di sé. Qual è stato il momento nell'evoluzione in cui l'uomo ha detto: "Sono io"? Forse non lo sapremo mai, ma quel momento c'è stato. E io ho cercato i tasselli di questo puzzle». Così nacque la sua piccola tribù in marcia verso il futuro, che ruotava intorno al conflitto di mentalità fra zio Vania, antiprogressista preistorico e il figlio Edward, che crede nella scienza e riesce a scoprire il fuoco osservando un'eruzione vulcanica. Il nipotino Ernest, primogenito di Edward era probabilmente il primo business man della storia: rimproverava al padre di non aver brevettato la scoperta. Quanta preistoria c'è ai giorni nostri? gli chie si: «Cosa c'è di più primitivo della guerra in Ju goslavia? E cosa c'è di più irrazionale che preten dere di guidare nel traffico di Londra, Milano o Tokyo senza che nessuno ci sbarri la strada? E in Gran Bretagna? Qual è la differenza fra gli irlan desi del nord e quelli del sud? Stessa lingua, stes so modo di vivere, stezssa voglia di uccidersi. E' assurdo.» Cultori dell'assurdo erano i suoi me stri, Borges e Kafka. Il suo libro, però, non era un attacco al progresso ma all'irrazionalità: «Non sono contro gli scienziati, penso solo che la scienza debba essere usata razionalmente. Se le centrali nucleari ci dessero energia pulita e sicu ra le accetterei. Ma questo non avviene, perché prevalgono gli interessi degli uomini d'affali».