La Russia condanna a morte la cultura

La Russia condanna a motte la cultura La Russia condanna a motte la cultura Fondi tagliati, musei e teatri rischiano la chiusura MOSCA NOSTRO SERVIZIO Le note pesanti e solenni della marcia funebre di Chopin cadevano nell'aria umida di pioggia di una giornata grigia, illuminata solo dai neon giganteschi delle pubblicità della Philips e della Coca Cola, nell'indifferenza totale. Solo qualcuno degli occupanti delle macchinone bloccate nell'eterno ingorgo del centro di Mosca lanciavano un'occhiata incuriosita ai signori in giacca e cravatta che, seri e tristi come si conviene per un lutto, celebravano il funerale della cultura russa. Un evento a metà tra un comizio e un happening, che ha visto radunati in piazza Majakovskij le maggiori personalità della cultura russa; il poeta Andrej Voznessenskij, il pianista Nikolaj Petrov, il violinista Pavel Kogan con la sua orchestra al completo, l'anziano Igor Moisseev con il suo balletto, il direttore del Teatro d'Arte Oleg Efremov e tantissimi altri. Ciascuno teneva in mano cartelli che imitavano lapidi tombali con scritto «Museo Russo», «Biblioteca Lenin», «Teatro Bolshoj». Sotto, l'anno di nascita e quello della «morte»; 1996. Questo gesto elegante e disperato è per i generali della cultura russa l'ultimo tentativo di attirare l'attenzione del potere. Da gennaio scorso gli enti culturali russi non si sono visti arrivare nemmeno un rublo dallo Stato. E ora il governo ha previsto per l'anno prossimo tagli del 65 per cento ai finanziamenti della cultura. E così i funerali metaforici non erano un ammonimento, ma la constatazione di un fatto. «Il Bolshoj è morto», afferma Ilia Glazunov, il pittore più popolare in Russia che a ogni sua mostra raccoglie folle oceaniche, «l'Ennitage e i musei del Cremlino non sanno come conservare i loro capolavori. I musei e i teatri di provincia, poi, sono ormai finiti». Anche il discorso di Irina Morozova, della Biblioteca Lenin, sembra piuttosto un certificato di morte: non ci IL CUSTODE DELL'IDEOLOGIA LM UNICA cosa che è ancora • al suo posto è Lui, il grande timoniere: ben riparato dal mausoleo perduto nelle immensità della Tienanmen. Una modesta consolazione per chi come Yao Wenyuan è stato in carcere per vent'anni e proprio oggi ritrova, scontata la pena, la libertà. Vent'anni: tanti, troppi in qualsiasi Paese ma soprattutto nella Cina uscita dal pentolone del «capitalismo comunista» di Deng. Quando lo arrestarono, il 6 ottobre del '76, neppure un mese dopo la morte del Grande timoniere, la Cina era ancora quella dove aveva vissuto la sua bruciante, tumultuosa avventura di moderno Catilina: la Cina delle divise blu, delle ragazze con le trecce pudiche, del libretto rosso e dei tazebao velenosi, misera ma fremente di idologia. Adesso, se vuole, Yao potrà sedersi in un teatro di Pechino e vedere una pièce dal titolo «A proposito dell'Aids»; davanti a un pubblico divertito gli attori raccontano la storia di una coppia che tenta di avere rap- sono soldi nemmeno per riscaldare le sale di lettura e il personale rimane in cappotto così come i lettori. Ma durerà poco perché tra un po' la biblioteca più grande della Russia non sarà nemmeno in grado di pagare la bolletta della luce e piomberà nell'oscurità. «Stiamo morendo», dice la Morozova e continua a elencare: non ci sono mezzi per proteggere i manoscritti antichi, per riparare i tubi che perdono e che Il senatore repubblicano Bob Dole sfida questa sera il presidente Bill Clinton in un dibattito televisivo WASHINGTON. Una sola cosa accomuna i due candidati alle presidenziali statunitensi del 5 novembre prossimo: le incessanti prove con cui si sono preparati al loro primo faccia a faccia. Quando manca appena un mese alle elezioni, alle 21 di oggi (le 3 di lunedì mattina in Italia) Bill Clinton e Bob Dole si affronteranno nell'atteso dibattito che sarà trasmesso in diretta televisiva in tutto il Paese dal teatro «Bushnell» di Hartford, nel Connecticut. Il secondo «round» è stato fissato per mercoledì 16 ottobre a San Diego, in California. Ma è chiaro che la prima impressione, soprattutto nei confronti dell'elettorato indeciso, può essere decisiva. «Per me è un'occasione d'oro», ha ammesso Dole, consapevole che, malgrado un considerevole recupero negli ultimi tempi, i sondaggi lo danno nettamente sfavorito. Il sspaven lunga e drammatica: la galleria Tretiakov, il Pushkin, l'Ermitage, che temono di non poter più pagare domani gli impianti di climatizzazione che mantengono splendidi i loro Rubliov, Rembrandt e Monet. Il Teatro d'Arte sta allestendo le «Tre sorelle» grazie solo al sacrificio degli attori, ma non ha un rublo per i costumi e le scenografie. E perfino i musei del Cremlino, nonostante siano vicini di casa di Eltsin, sono sull'orlo della gocciolano acqua arruginita sulle Bibbie di Gutenberg. Non ci sono soldi per la polizia e quasi ogni mattina qualche pezzo raro manca all'appello. Un problema che affligge anche la galleria Tretiakov, che recentemente è rimasta senza alcun servizio di sicurezza: le guardie si sono messe in sciopero perché non percepiscono lo stipendio da mesi. Per fortuna i ladri d'arte non lo sapevano. La lista di musei in pericolo è chiusura. Il famoso pianista Nikolaj Petrov è uno dei pochi che ancora non si è rassegnato: «Togliamo i soldi all'esercito. I nostri governanti devono capire che formare un'orchestra sinfonica è molto più difficile di una divisione di para». Una buona idea, se non fosse che proprio in concomitanza con i «funerali della cultura» al Cremlino si decideva di aumentare le spese militari. Una situazione assurda, quasi inverosimile in un Paese che ha sempre vantato la sua cultura che è rimasta per esso forse l'ultima consolazione dopo il crollo del mito di supremazia economica, ideologica e militare. Eppure gli attori e i pittori, i direttori di musei e i ballerini ne parlano ormai senza accalorarsi, come di una tragedia quotidiana cui ormai hanno fatto l'abitudine. Anna Zaf esova