Pacini parla e comincia dalle armi di Vincenzo Tessandori

Improvvisa svolta nella difesa del banchiere. Interrogato per ore con accanto il medico Improvvisa svolta nella difesa del banchiere. Interrogato per ore con accanto il medico Pocini parla e comincia dulie armi Gli intrecci con l'inchiesta «cheque to cheque» tarizzati» dalla Omset Sud, un'azienda che si è riconvertita e che oggi fabbrica pedaMere per le utilitarie. La Omset non ha trafficato in armi, né con il Kuwait né con il Maghreb e le indiscrezioni, proclamano Fabrizio Giangarè e Francesco Dente, legali della società, «sono prive di ogni e qualsiasi fondamento». Quei carri, sostengono, furono trasformati in lingotti e l'operazione venne controllata dalla Nato. In ogni modo i dirigenti andranno al più presto dal magistrato per fare «piena luce» sull'intera vicenda. Ma è la procura di Salerno che indaga sulla Omset e sulle sue attività e l'indagine pone attenzione particolare al capitolo sul riciclaggio di denaro e a quello sul traffico di Mercedes rubate, scoperto all'inizio dell'anno passato. E poiché i giudici sono diffidenti per vocazione e mestiere, ora indagano su quei carri armati, perché il sospetto è non che siano stati distrutti, ma smontati e trasferiti, magari usando carri ferroviari, all'indirizzo di facoltosi clienti. Perché il business riguarderebbe soprattutto cingoli, motori e torrette. E nell'affare sarebbero coinvolti due politici, stelle di prima grandezza. si trovato il nome nel registro degli indagati, a Pacini Battaglia dev'esser parso naturale rivolgersi anche a qualcun altro. E filtra il nome, peraltro poi smentito, di Marc Bonnant, uno che con i facoltosi italiani nei guai ha rimpinguato la personale considerevole fortuna, considerato che fra i suoi clienti ci son stati Licio Gelli, l'ex maestro poco venerabile della Loggia Propaganda 2 o P2, e Florio Fiorini, un tale che riuscì'a far esplodere un crack da 5 miliardi di franchi svizzeri. Bonnant è un raffinato signore che sa nasconder bene il pugno di ferro in un guanto di velluto finemente ricamato. E' nel suo stile evitare inutili asprezze, e così, forse, ha consigliato a Pacini Battaglia un atteggiamento più ragionevole. «Chicchi» deve aver giudicato buono il consiglio. Per questo si è presentato ai pm pieno di buona volontà. Era assistito dall'attivissimo Lucibello e aveva il conforto del cardiologo di fiducia, Cannine Santoli, dell'ospedale Sacco di Milano che, naturalmente, ha atteso in anticamera la conclusione dell'interrogatorio. Era il secondo rendezvous, dopo quello di martedì, quando, letti i capi d'imputazione, tutto fu rimandato a un momento più felice, per la salute ma soprattutto per la disposizione d'animo di pere che il suo stato di salute non è incompatibile con la galera. Venerdì, quindi, le prospettive erano quelle di rimanere dentro. Ma il finanziere il mondo lo affronta a petto in fuori e così ha detto al suo difensore di trovare qualcos'altro da offrire ai magistrati. E Lucibello, a mezzogiorno e venti, ha fatto il suo ingresso spettacolare nell'ufficio al quinto piano del dottor Franz. Quaranta minuti di colloquio, poi l'accordo: nel pomeriggio «Chicchi» sarebbe stato ascoltato. E, di certo, non per ripetere le cose che già aveva detto al giudice per le indagini preliminari: questo, Franz, aveva già dichiarato che non lo avrebbe accettato. No, al pubblico ministero il finanziere ha offerto qualcosa sul quale poter impostare almeno un progetto per la scarcerazione. Lucibello aveva commentato: «Noi vogliamo riportare il processo dentro il Palazzo di giustizia». In fondo Pacini Battaglia ne ha di cose da raccontare. Non foss'altro perché è il solo a comparire nei tre filoni in cui è suddivisa l'inchiesta: Ferrovie, magistrati presunti corrotti, armi. «Chicchi», che è un uomo pratico, finora ha seguito alla lettera i consigli legali del legale milanese. Ma poiché l'avvocato ha, lui pure, i suoi problemi con questa inchiesta, tanto da esser¬ «Chicchi». La conclusione dell'interrogatorio, al crepuscolo. «Si è cominciato dalle armi perché è una di quelle cose che si vuol assolutamente chiarire vista la sua estraneità completa alla vicenda»: parola di Giuseppe Lucibello. «L'interrogatorio lo avevamo chiesto noi proprio sull'Oto Melara, visto che sui giornali si dice Salerno, Torre, Calabria, Sicilia, Sardegna... visto che là lui è estraneo completamente ai fatti e quindi s'è voluto chiarire bene questa cosa». «Chicchi» è ripartito per il carcere mentre i pm sono apparsi sotto il porticato del palazzo rosa: Franz ha commentato: «Lo sentiremo sicuramente ancora». E l'inchiesta si sdoppia, si moltiplica, dà vita a rivoli tortuosi, rischia di confondersi, di sovrapporsi ad altre, di intrecciarsi. A La Spezia c'è, da venerdì, il sostituto procuratore Raffaele Donnarumma, di Salerno. Ieri il magistrato ha avuto un lungo colloquio con il colonnello Mango del Nucleo di polizia tributaria di Napoli. Poi un secondo incontro con i pubblici ministeri di La Spezia. Prima di tutto, si son detti, patti chiari e amicizia lunga: inutile cercare in due le stesse cose. Così la procura di La Spezia indagherà sulla vicenda dei 633 carri armati che dovevano essere «demili¬ «Da dove cominciamo?», chiede il pubblico ministero Alberto Cardino. «Chicchi» sorride appena: «Dall'Oto Melara». E' stato il suo giorno e lui ha giocato deciso, ha parlato, per due ore e tre quarti, di armi, di tutto quello che c'era da dire. Ma «non si è pentito», si è affrettato a precisare il difensore Giuseppe Lucibello. A dispetto delle apparenze e, magari, di qualche diffuso timore. Ma Pier Francesco Pacini Battaglia, stavolta sembra aver forzato la mano all'avvocato, e così l'incontro sollecitato con i pm Cardino e Silvio Franz non è andato a vuoto. Perché lui non accetta le sconfitte, lui ò uno pieno di risorse e questa storia di «Tangentopoli 2», insomma il fatto di stare in galera, comincia a fargli girare l'anima. Tanto più che lo sa di rischiare 14 anni di carcere, mai fosse che gli finisse male il processo Eni, sul punto di essere varato a Milano, e questo qui, che ha visto la luce in riva al golfo. D'altra parte, la carta della salute, gettata sul tavolo dalla difesa, era stata accolta come una scartina, e cinque by-pass non avevano colpito i pm d'assalto e poi il perito del tribunale Emilio Gatto ha fatto sa- POLEMICHE sull'uso dei pentiti, critiche agli uomini in prima linea nella lotta alla criminalità, sospetti e veleni. Richard A. Martin non nasconde il suo stupore: «Non voglio interferire nelle vicende interne italiane, né sembrare troppo ingenuo ma non capisco proprio certe polemiche e certe critiche a magistrati e forze di polizia che hanno operato in questi anni al miglior livèllo possibile». Con gli inquirenti italiani, Martin, lavora dalla primavera '82. A quell'epoca stava nel distretto Nord di New York, guidato dal futuro sindaco, Giuliani, insieme a un altro sostituto, Louis Freeh, oggi capo dell'Fbi. Dall'Italia per incontrare Freeh e Martin arrivarono Giovanni Falcone e l'attuale vice capo della polizia, De Gennaro. Nacque così non solo l'inchiesta Pizza connection ma anche quell'intreccio tra magistratura e polizia che secondo l'ultima teoria di Giuseppe De Rita utilizzando reati associativi e pentiti per combattere la criminalità organizzata avrebbe finito per provocare «una progressiva blindatura» della convivenza collettiva. Su questi temi Richard Martin ha un'esperienza unica. Special Us Attorney a Roma, dall'87 al '90, per la lotta alla criminalità, al traffico di droga (è di quell'epoca l'operazione Iron Tower) e il riciclaggio in Europa, Martin è stato il primo a raccogliere in Usa le confessioni del boss Tommaso Buscetta, per questo è stato chiamato a testimoniare nel processo Andreotti a Palermo. Dopo le stragi del '92 fu ancora nominato Special Attorney con il compito di collaborare con gli inquirenti italiani nell'operazione «Grande Falco», l'inchiesta sui killer di Capaci e di via D'Amelio. Dice Martin: «Credo sia importante non dimenticare quello che abbiamo ottenuto di positivo. Ma soprattutto non si deve dimenticare che per arrivare a questi risultati è stato pagato un prezzo enorme. Negli Stati Uniti apprezziamo moltissimo la collaborazione con gli inquirenti italiani, insieme potremo contrastare sempre più efficacemente Cosa Nostra e le altre emergenze criminali». Mr. Martin, più che stupito da certe polemiche sembra quasi amareggiato. Perché? «A Washington, nel quartiere generale dell'Fbi, c'è un busto di Giovanni Falcone. Per noi Falcone è un eroe, lui ci ha indicato la direzione da seguire. Come un eroe è il commissario Boris Giuliano e altri italiani caduti in questi anni. A volte mi sembra invece che in Italia si pensi solo a quello che è successo ieri o l'altro ieri senza vedere da dove siamo partiti. Non sottovaluto il nemico o la difficoltà di combattere Cosa nostra. E se è importante avere una strategia contro Cosa nostra, è altrettanto importante dare spazio e aiuto agli inquirenti, che in questi anni si sono meritati tutta la nostra fiducia. I nomi? Penso ai magistrati che conosco e con i quali ho lavorato, Ilda Boccassini, Giancarlo Caselli, Piero Luigi Vigna; a De Gennaro e Nella foto in alto Totò Riina A destra Giulio Andreotli in un processo Vincenzo Tessandori