LA SECONDA INTIFADA

Estero LA STAMPA' GERUSALEMME D DAL NOSTRO INVIATO Sacchi, migliaia di sacchi bianchi o marroni che mani febbrili riempiono, trascinano, ammucchiano per costruire ripari. Se il pessimismo dell'attesa può concentrarsi in un simbolo, l'immagine della Israele di queste ore è quella dei sacchetti di sabbia che adesso dalle due parti delimitano nuove trincee o proteggono le abitazioni. Tanti da far credere che qualcuno abbia cominciato a svuotare il deserto del Neghev, ma le ragioni di allarme ci sono tutte. A ventiquattr'ore dal fallimento di Washington, questo nuovo venerdì islamico di preghiera annuncia un'esasperazione pronta a divampare in nuove, violente fiammate. Ai cosiddetti «colloqui» di domenica prossima non parteciperà alcun leader. Non esiste più esponente palestinese, anche fra i più moderati, che non preveda disastri. «Gli israeliani tentano di ridefinire il processo di pace in base alla loro ideologia», dice la signora Hanan Ashrawi. Il negoziatore Hassan Asfouri è ancora più amaro: «Si sta tentando di risolvere il conflitto arabo-israeliano imponendo l'ideologia del Likud: l'approccio di Netanyahu è sufficiente a riaccendere il confronto e ad estenderlo a tutta la regione». Il premier ieri sera ha tentato la carta dell'appello tv. In un messaggio in arabo, Benyamin Netanyahu ha invitato i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania a avere fiducia. «Se ci ammazziamo fra di noi, perderemo gli uni .e gli altri; ma se avanzeremo insieme verso la pace, ci guadagneremo tutti». Il LA SECONDA INTIFADA Estero l^^p^^ Netanyahu va in tv e lancia un appello in arabo: «Uomini di Gaza, non uccidiamoci tra noi» Paltii è il dì dll dtt E m TEL AVIV ™ giusto che il mondo intero si preoccupi per Israele e per i palestinesi dopo le giornate di sangue e dopo i silenzi e le mezze parole del summit di Washington subito definiti un «nulla di fatto». Ma è del tutto sbagliato immaginare che Arafat e Netanyahu se ne siano tornati a casa ciascuno arroccato sulla sua posizione, e oggi se ne stiano seduti in solitudine, ognuno per conto suo, sull'orlo del baratro. E' sbagliato giudicare i fatti mediorientali in base a un automatismo intellettuale, anzi a due automatismi: il primo ci induce a pensare che ogni qualvolta un governo di destra siede alla guida di Israele, ciò è di per sé un disastro per la pace. Basta ricordare la pace di Camp David, fatta dall'uomo di destra Menahem Begin e da Sadat; o la conferenza di pace di Madrid, dove fu Shamir, un altro primo ministro di destra, dubitoso ma vinto dalla storia, a mandare la delegazione israeliana finalmente pronta a trattare con gli arabi, e oltretutto guidata da Bibi Netanyahu. L'automatismo peggiore, poi, consiste nell'immaginare che la porzione di storia ebraica rappresentata da Israele contenga qualcosa di fatalmente tragico, un invincibile presagio di sventura contenuto nel distacco dalla Diaspora. Fino ad ora, la realtà invece è che l'immensa sventura degli ebrei, ovvero l'Olocausto, è nato nella Diaspora, e non in Israele, Paese piccolo, precario, sempre in conflitto, Paese discutibile da tanti punti di vista; ma certamente, ormai, un conglomerato di acquisizioni civili e sociali incredibile, dato il brevissimo tempo che ha avuto a disposizione (e in quali condizioni) per creare le sue strutture, la sua democrazia, i suoi intellettuali, la sua scienza, la sua classe dirigente e anche il suo esercito. Netanyahu non deve essere riguardato per forza come un fatale affossatore del processo di pace, ma più realisticamente come un leader di centro destra appena eletto, che per ora non ha mostrato particolare brillantezza (al contrario), e che si è trovato serrato dalla sua campagna elettorale populista e allarmista, e però anche dalla sua stessa promessa di ottemperare all'accordo di Oslo. Perché Netanyahu, uno dei tanti leader di destra che si sono alternati con quelli della sinistra alla guida di Israele (un Paese dove l'alternanza è di prammatica) non è stato eletto per fare la guerra,