CHE VIZIO IMITARE MANHATTAN

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Alberto Arbasino UN buon consiglio d'antiquariato? Me lo diede Pietro Citati molto tempo fa, ve lo giro a proposito della questione se vi fosse un «metodo» o no nella «follia» vera o apparente di tanti imperatori romani, come Caligola o Eliogabalo. In Basilòia di Jean Gagé (ed. Les Belles Lettres, Parigi), un cattedratico del Collège de France spiega con erudizione smisurata come si svolgevano le procedure di divinizzazione degli Imperatori. Un collegio di magi di Corte, orientali ed esoterici (sempre fra le quinte, a Palazzo), con le tradizionali prassi astrologiche determinava il dio cui ogni sovrano, a seconda dei suoi segni e delle sue stelle, era tenuto a conformarsi, per identificarsi. Dunque scattava a un certo punto non una improvvisa malattia o una mania, ma la messa a punto dei caratteri tipici di una determinata divinità: la caccia, la danza, la guerra, la dissolutezza, le belle arti, l'incesto, e quant'altro. Coi relativi simulacri e programmi nei templi e nei riti, e fino alle conseguenze estreme. Gabriel Garcia Màrquez visto da Loredano Il suo nuovo libro «Notizia di un sequestro» è pubblicato da Mondadori Un ritratto di Màrquez è tracciato dall'amico Plinio Mendoza, scrittore colombiano, in «Quegli anni con Gabo» (Omicron, pp. 206, L. 22.000): si conobbero ventenni in un caffè a Bogota, studiarono a Parigi, esordirono nel giornalismo, s'innamorarono di Cuba e Fidel. tutti riteniamo di sapere davvero solo quando non abbiamo più domande da fare. Ora, secondo Hegel (e di qui muove anche il commento di Kojève), la filosofia tradizionale, dai Greci all'Ottocento, si è sempre limitata a una descrizione dell'essere che lasciava fuori il soggetto umano, considerandolo come un puro occhio rispecchiante il mondo. Se, come ci propone Hegel, cerchiamo di rispondere anche alla domanda su chi siamo noi che descriviamo il mondo, iniziamo un cammino che ci conduce a riconoscere che il vero assoluto non è solo sostanza (l'essenza delle cose che sta sotto e regge tutti i mutamenti), ma anche, inseparabilmente, soggetto, e cioè autoconsapevolezza razionale. Ciò di cui parliamo quando ricostruiamo la conoscenza umana del mondo non sono solo gli oggetti su cui gli uomini si sono fatti idee più o meno giuste; sono piuttosto diverse configurazioni del rapporto tra uomo e mondo nelle diverse epoche della storia. Il soggetto non è mai semplice occhio che guarda una realtà indipendente da lui ed estranea: è un momento di un essere che N un mondo in cui nessuno, o quasi, si professa più marxista, è fatale che anche lo studio di Hegel abbia cambiato fisionomia. Il marxismo era forse l'ultima grande filosofia (e non solo filosofia, naturalmente) che continuava, sul piane teorico, l'insegnamento di Hegel, era insomma una scuola hegeliana ancora viva e pronta a dibattere, in base alle dottrine del maestro, i problemi attuali. Oggi l'interesse per Hegel sembra essere soprattutto confinato nell'industriosità filologica degli storici della filosofia, i quali del resto hanno un campo di lavoro vastissimo, data la quantità di testi hegeliani ancora in attesa di edizioni critiche, di commenti, e per noi in Italia di traduzioni. Eppure, soprattutto per merito dell'ermeneutica, o anche di certe tendenze storicistiche che si vanno facendo luce nella filosofia americana, oggi è forse possibile riprendere una lettura non solo storiografica e filologica dell'opera hegeliana. E' in questa prospettiva che bisogna salutare con favore la pubblicazione integrale in italiano delle lezioni hegeliane che Alexandre Kojève tenne nella seconda metà degli Anni Trenta alla Ecole pratique des Hautes Etudes di Parigi. Finora, erano note in italiano (uscite presso Einaudi sotto il titolo La dialettica e l'idea della morte in Hegel; la riedizione più recente ha una bella introduzione di Remo Bodei) solo alcune parti di questi testi. La traduzione integrale ha naturalmente anche una sua importanza storiografica; perché permette di seguire analiticamente i vari passi del commento di Kojève alla Fenomenologia dello spirito, l'opera più complessa e affascinante, ma anche meno sistematica, di Hegel. Ma anche e soprattutto perché ha esercitato una decisiva influenza sulla cultura francese dei decenni successivi. Tra gli ascoltatori di Kojève ci sono personaggi come Sartre, Lacan, Merleau-Ponty, Raymond Aron, Georges Bataille, Jean Hyppolite, André Ereton, oltre a Raymond Queneau che fu il redattore dei testi. Chi ha una qualche familiarità con le opere di questi autori, troverà nel libro una quantità di suggestioni per la ricostruzione delle origini «hegeliane» delle loro posizioni; a cominciare dal Lacan della «fase dello specchio», che deve molto alle pagine di Kojève sulla famosa figura fenomenologica di signoria e servitù. Ma, al di là di questo interesse storico, che coinvolge principalmente un pubblico specialistico, l'opera di Kojève può davvero essere una buona occasione offerta a molti di riaccostarsi, o di accostarsi per la prima volta, alla Fenomenologia hegeliana. La quale, benché di lettura non facile, è uno di quei testi filosofici che meritano, o anzi esigono, di essere fatti oggetto di uno studio meditativo, non scolastico né «scientifico», che abbia la pazienza di leggere e rileggere, senza troppe pretese di concludere. E Kojève, per la chiarezza e la passione con cui si sforza prima di tutto di chiarire il testo hegeliano, è un ottimo compagno per questa vera e propria avventura più di altri commentatori successivi che non possono non confrontarsi, oltre che con Hegel, anche con le interpretazioni che si sono moltiplicate negli anni. La Fenomenologia è la filosofia allo stato più puro e autentico - bisogno di sapere assoluto, e insieme ripercorrimento della esperienza umana di ciascuno in corrispondenza con l'esperienza storica dell'umanità; una specie di grande «romanzo di formazione» che ci racconta come siamo divenuti ciò che siamo, scopre in questo processo un filo conduttore razionale, e ce lo propone come mezzo per innalzarci all'umanità vera. Tutto muove dal bisogno di verità «definitiva», quello che per gli idealisti come Hegel si chiama sapere assoluto. Che non è poi una faccenda tanto astrusa: Lacan, «allievo» di Kojève Quel magistero ebbe una decisiva influenza sulla cultura francese dopo gli Anni Trenta: ad ascoltarlo c'erano Sartre, Lacan, Aron, Merleau-Ponty, Ereton Bataille, Hyppolite, oltre a Queneau, che fu il redattore dei testi lo comprende e di cui egli è la coscienza. Questa realtà fatta di sostanza e soggetto è storica, come possiamo renderci conto se ripensiamo alla storia del sapere, delle tecniche, delle forme politiche, delle arti, delle religioni, ecc. Noi, e Hegel, che facciamo filosofia oggi non siamo a nostra volta puri occhi che guardano il mondo da fuori, ma eredi, risultato, di quella storia. E il sapere assoluto che cerchiamo si potrà dare solo come autoconsapevolezza di tale storia. La formazione umana di ciascuno è pensata da Hegel come ripercorrimento della storia del sapere e della cultura umana. Il bello della Fenomenologia consiste nel fatto che non si tratta solo di una sintesi della storia universale, ma di una ricostruzione della formazione del soggetto singolo «in parallelo», si potrebbe dire, con i momenti decisivi della storia dell'umanità. L'ontogenesi (la formazione dell'individuo), diceva un principio della biologia ottocentesca, ripete la filogenesi (la storia della specie). Così per esempio, nella Fenomenologia dello spirito (che vuol dire: scienza delle forme fenomeniche che assume via via il rapporto uomo-mondo), l'esperienza religiosa soggettiva della colpa e del bisogno di una redenzione dall'alto, che Hegel mette sotto la figura della «coscienza infelice», ha la sua configurazione storica concreta nella religiosità medievale. Il rapporto tra esperienze soggettive del singolo ed esperienze tipiche di certi momenti della storia dell'umanità è spesso problematico, nell'opera hegeliana; ma questo non è affatto un limite al coinvolgimento che si sperimenta nella lettura. Il quale raggiunge forse il suo punto culminante nelle pagine su signoria e servitù - che sono anche quelle più determinanti per il commento di Kojève. La formazione della coscienza umana, secondo Hegel, si compie davvero solo quando il soggetto non si rapporta più solo con le cose, ma incontra altri soggetti dai quali pretende di essere «riconosciuto». Nella lotta per il riconoscimento ciascuno mette in gioco la propria vita, mostrando così di non essere solo un animale dominato dall'istinto di conservazione. La morte (accettata come rischio) diventa così per Kojève, con un'enfasi che egli riprende probabilmente da Heidegger, il vero centro del processo di formazione dell'uomo; ed è questa, insieme all'idea del riconoscimento intersoggettivo come unica via di formazione dell'autocoscienza, l'idea direttiva di tutta l'interpretazione di Kojève. Che egli conduce in uno spirito di adesione totale al testo e alle intenzioni (più) sistematiche di Hegel, al punto da contraddire la generale sensibilità esistenzialistica della propria impostazione (e del suo uditorio) leggendo la Fenomenologia anche come una teoria della fine della storia nel sapere assoluto raggiunto in Hegel stesso, e nella società moderna come luogo di un riconoscimento intersoggettivo non più conflittuale (qualcosa come la società senza classi del comunismo realizzato). Ma la Fenomenologia non dice proprio questo, o almeno non lo dice così esclusivamente e indubitabilmente: e proprio tante pagine del commento di Kojève ci hanno insegnato a capirlo. Gianni Vattimo iamo mo, ati enza Ci racconta come siamo divenuti ciò che siamo, come si sono formati ilsmgolo e la coscienza in parallelo» con le esperienze dell'umanità CHE VIZIO IMITARE MANHATTAN ARCHITETTURA CONTEMPORANEA Corrado Ga vinelli joca Hook pp.328 L 140.000 A ARCHITETTURA CONTEMPORANEA Corrado Ga vinelli joca Hook pp.328 L 140.000 NA persona mediamente informata sa qualcosa di Pop Art e di Body Art, delle Avanguardie e Transavanguardie, può risalire a Bonnard, per non dire di Matisse. Ma è probabile che conosca poco l'architettura contemporanea, con le stravaganze post-modern e i suoi precedenti. Dal razionalismo geometrico al manierismo internazionale che ha dato la sua impronta a tante città europee sui modelli di Manhattan. Eppure le opere realizzate dagli architetti in mezzo secolo hanno influito ben più delle espressioni artistiche sulla forma urbana, sui modi di vivere, anche sui fattori neurobiologici dei contemporanei umani, fino alla depressione malinconica e alla violenza. Chi è stato a New York ha certamente visto le torri gemelle del Trade World Center: il loro autore, l'architetto nippo-americano Yamasaki, aveva progettato nel 1952 il complesso di scatoloni popolari di Pruitt Igoe, a St. Louis, distrutti con la dinamite dopo vent'anni perché divenuti serbatoi di delinquenza e residenze di disperati. Corrado Gavinelli, storico e do¬ cente al Politecnico di Milano, offre con questo volume molto illustrato un quadro analitico dell'architettura contemporanea affrontando con coraggio la sua evoluzione nello scenario della post-modernità, dopo il tramonto delle ideologie e delle certezze che avevano alimentato per decenni il movimento moderno, dai tempi di Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Gropius, ai primi segni di crisi negli Anni Cinquanta. L'autore suddivide il cammino dell'architettura in tre fasi: tardo-moderna autentica tra il '45 e il '60 (esempio: l'Unità di Abitazione progettata a Marsiglia da Le Corbusier), alto-moderna ibrida dal '60 al '70 (le torri della Défence a Parigi), postmoderno dal '70 in poi (esempio noto il grattacielo AT&T di Phi¬ lip Johnson, culminante in forma di mobile Chippendale). Nei tre periodi si intrecciano episodi e personaggi non disposti in ordine cronologico ma sistemati in categorie, come manieratezza, ambiguità, ironia. Il grattacielo Seagram di Mies Van der Rohe, comunemente ammirato per la sua purezza, sarebbe un modello di manierismo modernista. Così il Galla ratese di Aldo Rossi con le sue geometrie ossessive. I bizzarri edifici monumentali di Ricardo Bofùl a Parigi e nelle Villes Nouvelles (le enormi colonne che contengono scale e stanze abitate) entrano nella categoria del manierismo barocco. Quanto all'ironia, all'ambiguità e alla mescolanza di stili, brillano gli americani: dalla scenografia di Charles Moore per la Piazza d'Italia (New Orleans) al Castello della Bella Addormentata nella Disneyland di Buena Vista, al kitsch di Las Vegas elevato alla dignità di riferimento. Categoria della complessità e del tecnicismo: ecco incasellati Renzo Piano e Ricard Rogers col Beaubourg, Ieoh Ming Pei con la piramide di vetro al Louvre. Storicismo di ispirazione egizia: il Museo d'Orsay a Parigi (Gae Aulenti). La rassegna offerta dall'autore è molto vasta. Comprende gli architetti ritenuti più rappresentativi, con particolare attenzione a quelli nordamericani, francesi, tedeschi, ed è illustrata da un gran numero di fotografie, planimetrie, schizzi e disegni. Emergono la complessità e le contraddizioni di un periodo che porta i segni della post-modernità nell'economia, nelle trasformazioni della società, nel gusto, nella filosofia. Un appunto: sarebbe stata desiderabile una maggiore attenzione critica ai fatti italiani. La massiccia trasformazione del Bel Paese per mano di «gregari pseudomoderni», il fallimento dei maestri nelle periferie esplosive, l'imbruttimento delle nostre città, il rapporto antico-nuovo nei centri storici. Gli architetti non lamentino il loro isolamento finché continuano a interpretare l'architettura come un fenomeno da iniziati, trascurandone il peso sulla realtà vissuta. Mario Fazio