Il garibaldino di Piccio prima e dopo la guerra
Il garibaldino di Piccio prima e dopo la guerra Il garibaldino di Piccio prima e dopo la guerra Yf\ BERGAMO N Salon lungo due secoli: ecco come si presenta la I mostra «Maestri e artisti. x. 1200 anni dell'Accademia Carrara» (Sant'Agostino, fino al 1° dicembre). Dal Conte Ugolino e dal Bacio di Giuda di Diotti a un colossale totem polimaterico, fra antropologico e surreale, presentato da Enrico Prometti. Ho usato volutamente il termine Salon, perché, per quanto riguarda la prima e la seconda sezione della mostra, con le scuole classico-romantiche di Giuseppe Diotti e di Enrico Scuri, il visitatore farebbe interessanti • scoperte e trarrebbe uti- g. hssime comprensioni se ? abbinasse la gita bergamasca con una discesa e un confronto con «Les années romantiques» a Piacenza. Si renderebbe conto che l'arte devozionale, -ricosì tipica della cultura bergamasca della prima metà dell'800, fino a coinvolgere anche il Piccio con la sua Agar nel deserto - incredibile e rifiutata -, con la sua commistione fra Correggio e Reni e il '700 di Celesti e di Boucher, non è per nulla provinciale e tiene bravamente testa all'art sacre francese, così emblematica da imporre la lingua di Giovanna d'Arco all'immagine visiva della reazione cattolica integrale dopo i furori giacobini. Certo, altro clima emerge e ci coinvolge quando ci imbattiamo nel sempre straordinario Piccio, di cui colpisce fra l'altro l'inquieta esplorazione dei più vari campi tematici, dalla densità psicologica dei ritratti al neocinquecentismo visionario della Morte di Aminta. Nella sezione dedicata al paesaggio, in cui i Ronzoni, i Rosa, i Trécourt non scapitano troppo in confronto ai Michallon, ai Bertin, ai Cabat, il Mose salvato dalle acque del Piccio è ancora mia volta incredibile, con la sua ambiguità metamorfica dal fantastico romantico e cosmico di Turner ad un fu¬ Due olii di Vittore «Le zu Due olii della bella mostra bergamasca: «Ritratto di Vittore Tasca», di Giovanni Carnovali, detto il Piccio, e «Le zucche» di Giuseppe Pellizza il pittore e con la romantica barba biforcuta, e toccherà al grande ritrattista borghese Cesare Tallone, terzo maestro dell'Accademia, ritrarre venticinque anni dopo lo stesso colonnello in sedia «curale», con mia mano guantata di nero che fa presumere una mutilazione di guerra, eretto ma invecchiato dal barbone bianco sempre biforcuto. Altro bel discorso fra storia e costume si dipana fra il Ritratto della famiglia Perico, a metà secolo, di Trécourt, con il fondo del paesaggio in villa delle Prealpi bergamasche e con l'eco della tradizione lottesca, e l'immagine metafotografica d'inizio secolo del tardo allievo SCEGLIENDO TRA LE turo simbolismo alla Moreau. Accanto al versante di una cultura pittorica in cui la «scuola» locale appartiene al circuito virtuoso di una cultura internazionale di cui solo da pochi decenni sta emergendo il vero profilo, emerge da questo Salon bergamasco una ricca immagine fra storia e costume, altrettanto locale quanto nazionale. E' ancora il Piccio a offrirci lo stupendo ritratto del collezionista e garibaldino Vittore Tasca, con la sua giubba rossa che è un invito a nozze per MOSTRE dello Scuri, Giovanni Pezzotta (ma è evidente il modello Tallone), che ritrae schierata nell'interno altoborghese la famiglia Ambiveri-Radici intorno al giovane erede futuro, cadetto in qualche accademia militare. E qui, nella scuola Tallone, cade il secondo vertice della mostra, quel Ricordo di un dolore di Pellizza da Volpedo che ritengo nella sua essenza pittorica il «valore» più alto del secondo '800 italiano assieme alla Cugina Argia del Fattori, con in più un respiro europeo fra Degas e Lembach. Da qui in avanti, dal Tallone da confrontare con Grosso per comprendere il divario fra bella pittura e gran mestiere, si dipana la vicenda del nostro secolo, con le scuole di Poliziano Loverini, Contardo Barbieri fino a Funi e a Trento Longaretti. Qui davvero la carrellata si fa «provinciale», ma rimane significativa di vicende figurative italiane nel secolo, con la sola eccezione del futurismo, fino all'irruzione delle avanguardie già con Funi, poi con Longaretti, maestri attenti al buon mestiere ma rispettosi della personalità degli allievi. Anche prima è curioso il confronto fra l'opera dei maestri e gli esiti della scuola. Il kitsch «verista» sublime della Maledizione della madre di Loverini produce anche il pieno Novecento di Facchinetti o di Vanni Rossi; l'emblematico fascismo alla Farinacci di Contardo Barbieri produce anche l'informale di Erminio Mafiioletti. Quanto a Funi, un brivido di enigma dechirichiano percorre la scuola di Funi, in cui la mano «fuori campo» del vecchio maestro esiliato da Brera indica la statua classica, mentre in basso emerge la testa tronca dell'allievo Gianni Colombo, geniale designer. Marco Rosei
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