«C'è un solo bagno per cinque ammalati e infetti» di Igor Man

«C'è un solo bagno «C'è un solo bagno per cinque ammalati e infetti» il prefetto di Napoli, le cose cambieranno: al Cotugno arriveranno polizia, carabinieri e guardia di finanza. Gli uomini in divisa presidieranno l'accettazione e terranno d'occhio soprattutto le tre divisioni che ospitano gli ammalati di Aids. Se lo riterranno opportuno, potranno anche irrompere nelle corsie per fare perquisizioni. «Se occorreranno sistemi apparentemente più coercitivi e meno democratici per garantire la sicurezza all'interno dell'ospedale, arriveremo anche a questo», taglia corto l'assessore regionale alla sanità, Raffaele Calabro, che però non spiega perché i fondi per sui tassi d'interesse e sulla fiducia dei mercati internazionali per l'azione finanziaria del governo italiano. Bertinotti poteva andarsene, ma sarebbe passato alla storia come l'affossatore del primo governo in cui il maggior partito post-comunista dell'Europa occidentale abbia una funzione preminente. Tutti e due avevano in mano una carta decisiva, ma speravano di non doverla usare. I due giocatori si sfidavano a vicenda e Bertinotti, temo, con maggiore spregiudicatezza del suo avversario. Confesso di non avere capito quale sia stato in questa vicenda il ruolo del presidente del Consiglio. Mi è sembrato di comprendere che Prodi si considerasse «onesto sensale» e aspettasse da altri, per quanto possibile, la soluzione del problema. Forse desiderava che D'Alema tenesse a bada Bertinotti e che Ciampi inventasse una Finanziaria efficace ma gradita a Rifondazione. Negli ultimi giorni ha detto che il principale obiettivo del suo governo è quello di preparare l'Italia all'appuntamento con l'Unione monetaria e ha avuto il merito di ricordare finalmente con franchezza i sacrifici necessari per l'Europa. Se lo avesse detto prima avremmo perso meno tempo. Ma anche oggi, in una fase in cui il governo ha deciso di alzare la voce e dire la verità, Prodi vuole mettere d'accordo tutti e desidera evitare che il governo entri in zona di turbolenza. Mi auguro che ci sia riuscito. Anche se faccio fatica a immaginare una Finanziaria buona contemporaneamente per Ciampi e Bertinotti, mi auguro che l'accordo risponda effettivamente alle esigenze del Paese. Ma credo che il presidente del Consiglio, nei prossimi mesi, abbia un altro compito. Se vuole preparare l'Italia alla scadenza del 1999 deve partecipare al gioco e prendere partito. Dimentichi la scala reale di Bertinotti e gliela lasci giocare, se davvero avrà il coraggio di farlo. Non tocca a lui, Prodi, preoccuparsi dei litigi in famiglia tra comunisti ed ex comunisti. Eviti piuttosto di mettere Ciampi in contraddizione con se stesso. Un governo non può pensare soltanto alla propria durata. Deve dire ai propri connazionali con la massima chiarezza che dalla presenza dell'Italia in Europa dipende il futuro delle prossime generazioni. Deve esporre i termini del problema, descrivere i sacrifici necessari, evitare misure che si rivelano alla fine precarie e insufficenti. Se Ciampi ritiene che occorre, prima del 1999, incidere sulla previdenza e sulla sanità, Prodi lo dica al Paese e ne spieghi le ragioni. Corre il rischio di una crisi? Le crisi che servono a fare luce sono sempre utili, qualche volta necessarie. Dopo tante crisi al buio, fatte per inconfessabili motivi di bottega politica, avremmo finalmente un crisi di chiarezza in cui ciascuno si assume le proprie responsabilità. Ricordo certe trasmissioni televisive in cui Romano Prodi spiegava con grande efficacia a un pubblico di studenti che cosa sta succedendo nel mondo e che cosa succederebbe all'Italia se non ne tenesse conto. Era il Prodi migliore. Provi a ritrovare quel tono e quegli argomenti. Potrebbe avere un ottimo «share». LA CARTA CHE NESSUNO HA GIOCATO turo onore potrebbe cancellare l'ombra che una cattiva politica finanziaria lascerebbe sulla sua immagine. Se il pacchetto di tagli e d'imposte che si è confezionato nelle scorse ore fosse insufficiente Ciampi potrebbe buttare sul tavolo in qualsiasi momento la carta delle dimissioni. Otterrebbe due risultati: salverebbe la propria reputazione e spiegherebbe agli italiani, con il più convincente degli argomenti, quale è la posta in gioco. La scala reale nelle mani di Bertinotti era la sfiducia. Vuole davvero impedire che il governo riduca il proprio impegno sociale? Può sempre, se vuole, negare alla Finanziaria il voto del suo partito. Ma le due carte, per quanto efficaci, comportano un rischio. Ciampi poteva andarsene, ma le sue dimissioni avrebbero avuto un effetto catastrofico sul valore della lira, Sergio Romano (con l'assistenza di Mubarak, oggi, al Cairo) per «rassicurare tutti sulle buone intenzioni» del suo governo, che il Signor Netanyahu può sperare di spegnere (definitivamente) l'incendio. Gli insulti, le maledizioni degli arabi, i rimbrotti degli Stati Uniti suoi grandi tutori, l'altolà della Francia di Chirac, le (flebili) rampogne europee, i cosiddetti rumori di guerra a ridosso del Libano, non possono di certo impensierire un uomo come «Bibi». Israele è la prima potenza (atomica) del Medio Oriente, la quinta del mondo in termini militari; la sua aviazione è superiore del 40 per cento a quella della Nato: chiunque osasse sparare il primo missile verrebbe senz'altro triturato da Tshal. Ma il problema non è questo: immaginare una sconfitta militare d'Israele oggi come oggi sarebbe fantascienza. Il problema è la stabilità (anche psicologica) della regione più nevralgica e nevrotica del mondo, là dov'è la cassaforte del greggio. Senza del quale il mondo industrializzato, in particolare l'Europa, rischia l'inedia. Ed esiste altresì un problema non diciamo etico ma di correttezza politica. Tutti, volenti o nolenti, nella storia del mondo, han sempre finito per accettare quelle che Walter Lippman definiva «le grandi e spesso dolorose decisioni della comunità internazionale». E ciò perché esiste e va rispettata «la legge comune», senza della quale il mondo diverrebbe invivibile. Indubbiamente il margine di manovra di cui dispone Netanyahu non è molto, stretto egli com'è tra la furia nazionalistica dei coloni e l'odio per i palestinesi di compagni di squadra quali Eytan e Sharon. Ma il Signor Netanyahu con un pizzico di sachei avrebbe potute se non portare tutta l'acqua al suo mulino, averne quel tanto che basterebbe a spegnere l'incendio. In ebraico antico sachei vuol dire comprensione, ma in yiddish la parola ha un significato più pragmatico e complesso insieme: il buon senso coniugato con l'intuito. Evidentemente il sachei è come il coraggio manzoniano: chi non ce l'ha non può darselo. Tuttavia sostituire l'arroganza al sachei non ci sembra ragionevole bensì pericoloso. Se, poi, a comportarsi da macho improvvido (per citare la stampa israeliana) è un primo ministro con poteri da Can¬ celliere è lecito temere il peggio. Il rapporto di forze è a favore di Israele, lo abbiamo appena detto (lo fu anche a Oslo tanto che gli oppositori di Arafat lo accusarono, primo fra tutti il palestinese professor Said, di aver «svenduto la patria»), ma pensare di poter profittare di tanto vantaggio per rinnegare accordi approvati dal proprio Parlamento, presumere di dettare la «pace del Likud» agli arabi e agli stessi americani, lascia sospettare un tasso piuttosto ridotto di maturità politica. Se, poi, come troppi segnali lasciano intendere, il Signor Netanyahu non vuole la pace con i palestinesi perché il suo Dna li rifiuta; se, come sembra, egli considera un rodef, rinnegato, chiunque (come Rabin) paga la pace restituendo un po' di terra (altrui), ebbene abbia il coraggio di denunciare ufficialmente gli accordi di Oslo e di assumersi tutte le responsabilità di un simile gesto di fronte al consorzio internazionale, di fronte al suo popolo. Un popolo che in ogni caso ha votato «per» la pace. L'AGONIA DELLA PACE BAMBINA sa Bianca; infine suggellati dalla «storica» stretta di mano tra Arafat e Rabin. La pace bambina è morta. Inutile farsi illusioni. Io temo abbia ragione David Grossman quando dice, con la sua voce piana che tuttavia la tensione arrochisce: «Avevamo un sogno, la pace. L'hanno uccisa due volte: con l'assassinio di Rabin, con la vittoria elettorale del Likud. Benyamin Netanyahu ha condotto una politica insensata, irresponsabile. Aveva promesso al popolo israeliano "pace e sicurezza" ed ecco il risultato (...). Ora noi che vogliamo la pace dobbiamo abbandonare il troppo lungo lutto. Dobbiamo uscire da questa condizione psicologica negativa per tornare sulle piazze e parlare al cuore d'un popolo che fortissimamente vuole la pace». Ma non sarà facile. Non è tappando il tunnel, come sembra disposto a fare, né incontrando in fretta e furia Arafat Igor Man j