NON C'ERA METODO IN QUELLA FOLLIA di Franca D'agostini

NON C'ERA METODO IN QUELLA FOLLIA NON C'ERA METODO IN QUELLA FOLLIA L'imperatore Caligola visto da Ferrili Sembrava un imperatore modello; ma dopo pochi mesi lo scenario cambiò improvvisamente, drammaticamente; e qui sta il «giallo», perché il mutamento è a prima vista inspiegabile. Assassinii e crudeltà di ogni genere si succedettero con ritmo incalzante. Ovunque, anche quando non c'erano, Caligola vedeva nemici; e se rie sbarazzava senza pietà. Si narra che avesse due taccuini, rispettivamente intitolati «Spada» e «Pugnale», contenenti la lista di coloro che aveva deciso di uccidere nell'uno o nell'altro modo. Gli episodi significativi, secondo il gusto degli scrittori romani, si affollano: valga da esempio quello del banchetto durante il Tuale l'imperatore scoppia a ridere improvvisamente; e quando i consoli che gli stanno accanto ghene chiedono il motivo risponde di aver appena pensato che potrebbe far taglia¬ re loro la testa con un semplice cenno. Accanto alle crudeltà, le stranezze. Getta denaro al popolo da un tetto, provocando una corsa precipitosa all'accaparramento con molte vittime. Fa costruire navi con colonnati e sale per banchetti, vi pianta alberi da frutta, vi dà lussuosi festini (le famose navi di Nemi furono costruite durante il suo principato). Nomina senatore il suo cavallo preferito. Fa erigere un tempio in proprio onore, e in esso una sua statua d'oro in grandezza naturale. Si veste da dio, con clava e pelle di leone; né si limita alle divinità maschi, perché impersona anche Giunone, Diana e Venere. Che tutte queste fossero manifestazioni di una più o meno lucida follia, è difficile negare. Ma il problema, o come lo abbiamo chiamato il «giallo», sta nel tempo e nel modo, perché i primi atti dell'imperatore sembrano ben diversi. E qui interviene la spiegazione data da molti storici antichi e moderni, che attribuiscono il brusco mutamento rispetto alle prime azioni di Caligola a una malattia che lo colpì pochi mesi dopo l'avvento al trono. Sulla sua natura precisa, è difficile farsi un giudizio: certo rischiò la morte, e il sistema nervoso dovette essere scosso. La spiegazione è possibile. Ma ha il forte difetto della vaghezza, della genericità; e dunque non ha accontentato tutti. Ora un autorevole studioso americano, Arther Ferrili, riprende l'intera questione, esaminando nuovamente gli atti dell'imperatore prima della malattia. Ne risulta che gli affermati meriti sono, in realtà, assai generici ed enfatizzati nell'opinione pubblica dall'attesa per il nuovo principato. Al contrario, errori rovinosi nel trattare con 0 Senato, con il popolo, con l'organizzazione fiscale vengono commessi fin dall'inizio, come pure dall'inizio vi sono manifestazioni sconvenienti nelle cerimonie pubbliche e private: solo che i consiglieri più vicini riescono a coprirle, a sviare l'attenzione. Il che, con il passare del tempo, non sarà più possibile. Uno squilibrato, insomma; e questo giudizio di ordinaria follia costituisce il risultato dell'ultima indagine su una personalità che ne appare connotata durante tutta la sua breve esistenza. Ma lasciamo concludere a Ferrili: «Caligola non era uno Stalin né un Hitler; gli mancava la loro ferocia e perseveranza in una politica. Era pazzo e le sue azioni erano molto più stravaganti e arbitrarie di quelle dei dittatori del XX Secolo: non c'era modo di sapere dove sarebbe potuto arrivare». Sabatino Moscati CAMBIA LA SCUOLA £ON BATESON DESSO che si aprono le scuole e gli insegnanti definiscono il calendario dei loro impegni, oltre le lezioni, una selva vieppiù intricata di incontri, riunioni, collegi, assemblee, corsi, convegni, si spera che a qualcuno resti il tempo (e la voglia) di aggiornarsi (e motivarsi), in silenzio e solitudine, semplicemente studiando. Ad esempio un buon libro con un programmatico titolo-esca, La stupidità non è necessaria. Non si pensi ad un capzioso e flagellante pamphlet. Si tratta invece della ponderata e umile sintesi (e divulgazione) di una ricerca - 0 sottotitolo subito lo esplicita - intomo a «Gregory Bateson, la natura e l'educazione», svolta e sperimentata sul campo (in aula, con gli allievi) da una professoressa di lettere in un istituto tecnico romano, Rosalba Conserva. D suo pregio maggiore sta pro¬ i dl pgprio nello sciogliere, nel vivo della quotidianità didattica, quei nodi di psicologia deU'apprendimento, di epistemologia del sapere, in cui si attorciglia il lavoro dell'insegnante: come spiegare, farsi capire, far «usare» quel che si trasmette. Bateson (1904-1980), antropologo (come la prima moglie Margareth Mead) e psichiatra, biologo e zoologo (come il padre), maestro di interdisciplinarità (come dimostra in Questo è un gioco, ora tradotto da Cortina) è nome affermato e non poco controverso nella comunità scientifica (che gli rimproverava l'origine di altrui derive irrazionalistiche e anarchicheggianti, alla Capra e alla Feyerabend), ma nell'ambito pedagogico e scolastico (specie italiano) è una «riserva» frequentata da pochi addetti ai lavori universitari. Lo studio delle sue opere (Verso un'ecologia della mente e Mente e natura le più celebri, edite da Adelphi) è stato per l'autrice una maieutica: non intende riassumerle o banalmente propagandarle, ma più semplicemente, e sinceramente, raccontare («gli esseri viventi pensano per storie») come sia stato possibile per lei (e sarebbe per molti), attraverso Bateson, cambiare abitudini inconsapevoli, acquisire nuove idee. Bateson insegna a imparare dalla natura, a mettere in relazione, a connettere, a comprendere la coevoluzione di soggetto e oggetto, il circuito e la ricorsività del conoscere, a non confondere mai la mappa con il territorio, la descrizione con la cosa. L'autrice non s'impanca in difese di «scientificità», vuol solo testimoniare quanto e come per lei questa frequentazione («dalla simmetria del granchio alla grammatica del discorso») sia stata vantaggiosa, abbia generato percorsi didattici tanto suggestivi quanto concreti (basta consultare come esempio le pagine sul riassunto e la parafrasi, la traduzione, la spiegazione e l'interrogazione). «L'infor¬ mazione non dipende dalla natura del messaggio ma dalla natura della relazione tra chi lo emette e chi 10 riceve». E dunque «la mente dell'insegnante educa ed è educata dalla mente del suo allievo». Insegnare e imparare procedono come un'esplorazione, in cui diventano utili anche gli errori, i dettagli, i particolari fuori posto da ricombinare per correggere il tiro, quegli Attesi imprevisti analizzati in un altro bel saggio, a cura di Paolo Perticali (Bollati Boringhieri). Non si deduce di qui alcun elogio di improvvisate spontaneità (né tantomeno dello spontaneismo di sessantottina memoria: «Lasciando liberi gli studenti in realtà li mettiamo in un mare senza bussola»); al contrario si ribadisce il metodo, 11 controllo di procedura, la norma proprio ai fini della creatività: «Immaginazione e rigore non sono in alternativa». Proprio qui sta la «superiorità)) del liceo classico: la sua tecnica sistematica di traduzione abitua a dare forma (e insieme libertà) al discorso («Chi parla male, pensa male», declamava Moretti. E chi comprende male, agisce peggio). Ecco perché la scuola (con i suoi esercizi, le sue ripetizioni, anche la sua dose di noia) è necessaria. Se si tien fermo che l'obiettivo finale è la «felicità del conoscere», l'unica cosa non necessaria è, appunto., la stupidità. Ma qui conviene fermarsi: non è il caso di indicare troppo le pagliuzze della scuola prima che qualcuno provveda a rammentarci di questi tempi le travi del nostro quarto potere. , Luciano Genta Gilles Deleuze e Felix Guattari in una foto anni 70 PARTI DAL CAOS ARRIVI AI CONCETTI CHE COS'È' LA FILOSOFIA Gilles Deleuze Felix Guattari Einaudi pp. 248 L. 28.000 CHE COS'È' LA FILOSOFIA Gilles Deleuze Felix Guattari Einaudi pp. 248 L. 28.000 I è parlato molto, e non sempre bene, di Qu 'est-ce que la philosophie, scritto dai due autori dell'Anti-Edipo quando l'uno (Felix Guattari) era gravemente malato, e qualche anno prima che l'altro (Gilles Deleuze) morisse suicida. E' un libro piuttosto sobrio, e ricorda molto il tono astratto, meticoloso e un po' pedante del giovane Deleuze, che all'Università di Vincemies, nel pieno del fervore movimentista, esordiva a ogni lezione dicendo «affronterò i seguenti tre punti...». Questo bell'ordine vagamente refro non può non dispiacere a chi si aspettasse ancora il lucido delirio dell'Anti-Edipo. D'altra parte, va detto che, come in ogni altra operazione filosofica di Deleuze, anche in questo caso ci troviamo di fronte a un testo dall'apparenza astrusa e complessa, a una prosa fredda e concitata, a un susseguirsi di immagini precise e folgoranti, ma una vicina all'altra, senza pause e diluizioni. Non è un testo «folle», ma non è neppure un testo disciplinato, che rispetti i tempi di una lettura inedia, bisognosa qua e là di generi di conforto. In realtà, Qu'est-ce que la philosophie è un libro per filosofi, ma non nel senso in cui lo sono i libri «tecnici», per quelli che si dicono «gli addetti ai lavori». E' un libro per filosofi perché invoca anzitutto, postula e richiede, il riconoscimento di una esperienza, fa appello a una affinità preliminare, vuole un lettore che conosca e pratichi o intenda praticare o abbia un tempo praticato l'esperienza del pensiero. Chi ha esperienza dei concetti, di come nell'analisi tendano a trasformarsi nel loro opposto, o a sdoppiarsi, o a ospitare in sé altri concetti; chi conosce l'esplosione combinatoria che a volte si verifica nel pensiero più disciplinato, o l'o¬ blio improvviso che sopraggiunge nell'esercizio più sano e agile della memoria, non farà fatica a ritrovarsi in queste pagine di Deleuze e Guattari, e in qualche caso a trarne consigli utili. L'idea di partenza è una definizione chiara di «filosofia», come «arte di formare, inventare, fabbricare concetti». Di qui conseguono altre questioni, anzitutto si tratta di spiegare perché questa sola definizione è quella giusta, perché la filosofia non è riconducibile alla riflessione, o alla discussione pubblica, democratica (secondo l'idea di Apel e Habermas), o alla «conoscenza di sé» alla «meraviglia», ecc. (definizioni vaghe, che non colgono la specificità dell'oggetto in questione, o che tendono a totalizzare l'oggetto-filosofia facondone un sapere primo e plenipotenziario). Quindi si tratta di chiarire che cosa sono e come operano i concetti, quale è la tèchne che ne guida la creazione. Infine, si tratta di specificare quale è la differenza tra l'operare della scienza e quello della filosofia, tra l'operare della filosofia e quello dell'arte. In tutto questo percorso, piuttosto semplice e prevedibile, secondo lo stile del «qu'est-ce que...», viene tracciata una figura precisa, una sola immagine, che possiamo così sintetizzare: a) c'è un caos di sfondo e di partenza, l'infinito caos in cui è immerso il pensiero; b) la filosofia sopraggiunge per generare un ordine e un orientamento creando concetti come altrettante figure, configurazioni o «articolazioni»; c) i concetti non vagano sconnessi, ma si collocano su un certo piano, un «taglio» nel caos che è la prima operazione filosofica, e che consiste nel predisporre uno sfondo, un luogo in cui si è collocati e da cui «non si esce» (per es. nel kantismo, questo Deleuze espiegano la filosofiinventarefabbricardel nostroun'arte dtutta spe Deleuze e Guattari spiegano «Che cos'è la filosofia»: come inventare, formare fabbricare l'ordine del nostro pensiero, un'arte della prassi tutta sperimentale Guattari piano è il livello «trascendentale», nell'heideggerismo è l'essere-tempo-linguaggio, nella fenomenologia è il mondo delle «esperienze vissute» nell'esistenzialismo è l'esistenza del singolo, ecc.); infine d) i concetti hanno una storia, e mia vita: come tutte le cose create, e le creature viventi, sono autonomi, «autopoietici», continuamente formano se stessi, e come tutte le cose create sono molteplici, complessi, autoreferenziali. Si cita spesso una frase di Foucault: «Un giorno forse il secolo sarà detto deleuziano». Strana osservazione, se si considera che Deleuze, salvo la parentesi dell'Anti-Edipo, non ha avuto una grande notorietà (solo da poco i suoi libri hanno iniziato a essere tradotti e conosciuti nel mondo anglosassone), ed è stato un pensatore piuttosto isolato e schivo. Ma bisogna intendersi: la frase di Foucault non si riferisce forse a una certa impronta di Deleuze sul pensiero dell'epoca, ma piuttosto a una impronta dell'epoca sul pensiero di Deleuze: più di chiunque altro infatti, Deleuze ha tentato una prassi radicalmente sperimentale e progressiva della filosofia. L'effetto è un ordine complesso, che tiene in sé il caso e il caos. Ma qui più che in altre opere si avverte con chiarezza che l'ordine è dopo, che si tratta di una filosofia non più sistematica, ma che non è neppure più aforismatica: uno stile tipicamente «postumo», sorto dopo il sistema, dopo il frammento (dopo Hegel, dopo Nietzsche). Bisogna precisamente parlare di una estrema avanguardia filosofica, un dernier cri: e il fatto che si tratti di un grido non è casuale, considerando il destino dei due autori. Franca D'Agostini

Luoghi citati: Adelphi, Cortina, Nemi