Le «mosche» intorno all'Eni

P EE Le «mosche» intorno allf Eni faccendieri all'assalto di Bernabè PETROLIO E POLITICA P i;| .,..„,„,. ,;<jR0MA ETROLIO, chimica e gas. Escrescenze untuose della terra, fumi tossici ma preziosi, energie naturali e artificiali che hanno attratto irrimediabilmente, nella grande Allegoria del Potere, le «mosche del capitale». Fu così con i generab piduisti Giudice e Lo Prete. E fu così con Craxi e con Formica, quando nel giugno del '79 prendeva corpo l'affarone Eni-Petromin, con il proscenio occupato dai piduisti in fasce ma già allenati a batter cassa, gli Emo Danesi e gli Umberto Ortolani, gli intramontabili «brasseur d'affair», i Mach di Palmstein e i Luigi Bisignani. E fu così con il tangentone Enimont, dove alla compagnia dei soliti noti del malaffare politico si aggiunsero personaggi tragici alla Raul Gardini e Gabriele Cagliari, uomini ridicoli alla Carlo Sama, sensali enigmatici alla Giuseppe Cusani. Passano gli anni, ma nulla cambia in questa immota allegoria: le «mosche» stanno ancora tutte lì, e continuano a svolazzare, più viscide di prima, intorno all'affare di sempre, petrolio e chimica. L'hanno fatto anche in questi ultimi tre anni, alcune uscendo appena un po' malconce dalla «cura» di Mani Pulite, altre avendola miracolosamente e misteriosamente evitata. Ma ora che la «ragnatela» investigativa tessuta dai magistrati di La Spezia comincia a prendere forma, le «mosche del capitale» si impigliano, si divincolano, ma non possono fuggire. E cominciano a parlare. E si comincia così a capire cosa è stata - anche in questi ultimi anni che tutti credevamo più o meno ripuliti - la sotterranea, terribile lotta di potere al vertice dell'Eni. Un vertice, quello del colosso petrolchimico, già occupato nella storia da due ircocervi del capitalismo all'italiana, Enrico Mattei e Eugenio Cefis, che vuol dire soldi, appalti, contatti in tutto il mondo per chi lo occupa. E lo ha occupato, dall'ormai lontano 1992, quando il governo Amato ce lo mise pro-tempore, per guidare la trasformazione in Spa dell'ente pubblico, un ragazzo giovane, Franco Bernabè. Un altoatesino che ha risciacquato i suoi panni negli Stati Uniti, che è scampato dal terremoto di Enimont. E che da allora - si scopre solo oggi per questa mostruosa nuova cupola d'affari scoperta dai giudici spezzini, per questa nuova P2 della Seconda Repubblica, è diventato il nemico da abbattere. Per rimettere «le mani sull'Eni». Per tornare a fare affari come nel buon tempo antico, quando al ventesimo piano del grattacielo dell'Eur salivano direttamente i piduisti alla Ortolani, a trattare affari jol presidente piduista Giorgi Mazzanti. Quello che ha scritto il gip Diana Brusacà nel- l'ordinanza di custodia cautelare per questa marmaglia di sensali finiti in carcere in quest'ultima settimana, da solo, spiega tutto o quasi tutto. «A seguito delle vicissitudini giudiziarie milanesi - si legge nelle motivazioni - si è determinata una insanabile rottura con colui che amministra l'Eni, Franco Bernabò. Per tale ragione l'ottenimento delle commesse doveva essere ricercato, sinché tale situazione di vertice permaneva, attraverso altre strade». Insomma, quel giovanotto nato a Bressanone, per i Pacini Battaglia e i suoi accoliti era un ostacolo da rimuovere o, in alternativa, da aggirare. Il come lo ha spiegato la stessa Brusacà: «L'accesso veniva ottenuto attraverso i buoni uffici di Roberto Tronchetti Provera e Giorgio Rocco, commercialista e membro del collegio sindacale dell'Eni. Dietro somministrazione di tangenti a! suddetto Rocco, veniva perseguito l'intento di ottenere l'aggiudicazione di appalti dal gruppo Eni alla società presieduta da Mineni Enrico, amministratore Mineni Guido e consiglieri Mineni Guido e Mineni Paolo». Proprio quel Mineni Paolo che, in un'intercettazione dell' 11 gennaio del '96, si sente dire al telefono dal banchiere e trafficante delle Due Repubbliche «Chicchi» Pacini che in questi ultimi anni «noi non si era riusciti a fare un cazzo con l'Eni, né con il Cossiga né con il mio incontro con Bernabè, cioè non si era mosso nulla...». Ecco, scoperto il sipario su queste miserie, la storia più recente dell'Eni diventa più comprensibile. E si capiscono allora tutti i tentativi che la nuova «cupola», questo nugolo di «mosche» assatanate han fatto per riprendersi l'Eni. Citiamo a caso, ripescando dalla memoria più recente. E allora si può ricordare che Pio Pigorini, uno di quelli che ieri sono finiti nel lungo elenco dei «perquisiti», fu arrestato ai tempi dello scandalo Enimont, quand'era presidente della Snam. E già allora, era il '93, sfilando davanti al pool di Milano cominciò a sparare a zero sull'odiato Bernabè. «Lui sapeva tutto, della tangente che si stava por materializzare tra Eni e Montedison», buttò là il Pigorini ai giudici di Mani Pulite, ma senza spiegare, senza chiarire e dunque la cosa mori lì. Ma le «mosche» si sa, sono testarde. E nel giugno del '94, ricordiamo ancora, ormai uscito definitivamente dall'Eni, Pigorini tomo alla carica, inviando una letterina velenosa a Mario Draghi, direttore generale del Tesoro e consigliere dell'Eni, ripetendo il suo «teorema»: «Bernabè negli anni di Enimont era direttore centrale per la programmazione, lui non poteva non sapere...». Ma niente, anche in quell'occasione nulla accadde. Benché in realtà, da quello stesso periodo, con l'avvento al potere del governo Berlusconi, l'aggressione all'Eni si fece sistematica, e non solo da par- te dei «brasseur d'affair» o dei manager trombati. Ci si mise, a buttare benzina sul fuoco, la destra statalista e post-fascista di Giuseppe Tatarella, di Pietro Armarli, altro riciclato della Prima Repubblica delle Partecipazioni Statali: «Bernabè se ne deve andare, bisogna indagare sulle società offshore dell'Eni». Non passava giorno, dal marzo del '94 in poi, senza che i duri di An non sparassero a pallettoni sul vertice dell'Eni. Da allora, e praticamente fino alla primavera scorsa, il venticello della calunnia è soffiato forte, sull'Eni, e con esso le «mosche» hanno continuato a volteggiare. Ogni mese la stessa solfa: parlavi con qualche grosso industriale pubblico della Capitale, e subito partiva la vocina: «Lo arrestano, presto lo arrestano, il Bernabè». Oppure: «Vedrete, ora gli affiancano un secondo amministratore delegato...». E giù i nomi dei papabili, guarda caso i Gianni Dell'Orto, i Carlo Da Molo, i Giorgio Rocco, altro «perquisito» di ieri, consigliere della Bnl, commercialista di fiducia della famiglia Dini e della signora Donatella por i suoi affari in Costa Rica. Lo scontro finale, immaginiamo quanto crudo, c'è stato nell'aprile scorso. Con Dini, proprio lui, presidente del Consiglio uscente che prima delle elezioni stava per rinnovare il eda dell'Eni, e che fu stoppato dal pds all'ultimo momento. Le nomine slittarono a dopo le elezioni, ma le fece sempre Lambertow, confermando Bernabò come amministratore delegato, ma promuovendo alla presidenza Guglielmo Moscato, uomo della vecchia sinistra de che - riferiscono i verbali delle intercettazioni - Pacini Battaglia e Danesi consideravano «uomo loro». Che dire, se non che Tangentopoli in effetti, come ripete da mesi il pm milanese Francesco Greco, non è mai finita? Che dire di un Paese nel quale, morta ormai la politica dei partiti, continuano a muovere ì fili del potere personaggi come lo stesso Pigorini, che solo quattro mesi fa ha intermediato l'affare tra Montedison e Gazprom, o Gianni Dell'Orto, che dal suo ufficio di consulenza londinese fa il sensale con le aziende dell'ex Urss? Aveva visto giusto Paolo Volponi, lo scrittore purtroppo scomparso, lasciandoci il suo ultimo libro, appunto «le mosche del capitale»: ima metafora dell'industria, che «ha sottomesso Roma e l'ha condizionata. Roma la teme, la serve, ma sotto sotto la schernisce. Roma ne diffida ma se ne avvantaggia». E r Palazzi del potere, ormai, sono abitati solo da «feudatari, invece del ponte levatoio, garage sotterranei ed elicotteri...». Massimo Giannini La «nuova P2» della seconda Repubblica ha montato un castello di calunnie per poter mettere le mani sulle commesse non sussisterebbeerazione del reato». aspettavano Savia e to via mentre è toco Gaspare Corniola litano alla folla di grafi e cameramen. pgquecento milioni dta: difficile scoprifra gli indagati, avpotuto giudicarlprezzo troppo altoVincenzo TessanLe «fac

Luoghi citati: Bressanone, Costa Rica, La Spezia, Milano, Roma, Stati Uniti, Urss