Chiapas, la rivoluzione a salve

Chiapas, la rivoluzione a salve «Abbasso l'imperialismo, viva gli indios»: la tana di Marcos echeggia di slogan buoni per tutti Chiapas, la rivoluzione a salve Nella foresta fra zapatisti e radical-chic TUXTLA (Chiapas) DAL NOSTRO INVIATO Salendo la montagna zapatista incontro un funerale. Poi due soldati zapatisti, uno dei quali mi prende in consegna e sale sulla mia macchina scortandomi. Infine incontriamo insieme alcuni camion pieni di civili armati a caccia di guerriglieri. Ma che non cercano gli uomini di Marcos. Cercano l'altra guerriglia, quella nemica e cattiva dell'Epr che ha fatto quasi venti morti in tre settimane, e che si suppone infiltrata e diretta da provocatori. C'è chi dice che sia sostenuta dai servizi segreti, e chi pensa che sia una filiazione di marxisti ortodossi vecchia maniera, che hanno interrotto l'idillio politico-religioso-zapatista con una bella mattanza a colpi di mitra: ciò che ha messo in grave allarme l'episcopato messicano che si è subito appellato al governo affinché sea muy sensible para no respondercon unarepresión indiscrìminada a acciones que, aun en forma equivocada, manifiestan la inconfonnidad de distintos grupos. In poche parole: state attenti, dando la caccia a quelli dell'Epr, a non prendere a fucilate anche gli scout-guerriglieri zapatisti, nostri dilettissimi figli. E così posso vedere con i miei occhi questa bizzarria: i miliziani zapatisti vivono alla macchia in un finto e ben tollerato stato insurrezionale che corrisponde all'occupazione e gestione in appalto di una provincia autonoma, una riserva indiana e un'arcidiocesi della Teologia della Liberazione vigilata con grande attenzione dai «curas», i curati di campagna indiani che prendono letteralmente a scopate e male parole i soldati dell'esercito regolare venuti a far atto di presenza nei cuarteìes militari, accusandoli di essere puttanieri, ladri, maneschi, diffondere il gioco d'azzardo e indurre alla prostituzione le figlie dei pueblos. Le donne indie, sotto la direzione dei curas e in accordo con la guerriglia zapatista, frattanto disboscano metodicamente la foresta, segata, accatastata in enormi piramidi e venduta agli affaristi governativi che si sono sempre dedicati a quest'impresa di alto profitto (per se stessi), di pura sussistenza per i cittadini indiani e di rapina per la natura. Con loro Marcos benevolo e tollerante. La foresta lacandoniana intanto arretra lasciando una campagna che nessuno coltiva, salvo qualche piantagione di mais selvaggio le cui pannocchie marciscono alla pioggia. Il guerrigliero che sale sulla mia macchina e si siede accanto al conducente non emette alcuno sgradevole odore umano selvatico. Per lui si vede che non vale ciò che scriveva il Che a proposito dell'odore corporeo del rivoluzionario alla macchia che si trasforma dopo un po' in un sapore di belva, sicché coloro che vivono alla macchia imparano a convivere con l'odore violento del corpo e presto non lo sentono più. Questo giovanotto sembra uscito da una doccia e da una lavanderia che gli ha perfettamente sistemato giubba, pantaloni e cappello. Parla un eccellente inglese e spiega: «Fra noi e lo Stato messicano, e quindi fra noi e le sue forze armate, non c'è stato di guerra. C'è dialogo. Un dialogo caldeggiato dai vescovi, voluto dagli indios, voluto dall'opinione pubblica sorretta dal popolo. Noi e l'esercito non ci spariamo: parliamo, discutiamo e prepariamo il futuro per la nostra gente. Quelli che hanno sparato e ucciso sono provocatori dell'Epr, gente che vuole distruggere ciò che abbiamo costruito. Ma non ce la faranno. Siamo noi la nuova rivoluzione non violenta e giusta, noi le armi le usiamo per difendere i diritti degli esclusi, ma siamo discendenti di Nelson Mandela e di Martin Luther King: siamo la democrazia annata contro il neoliberismo». Il funerale che incontriamo è composto da una carovana indiana di una trentina di persone che non piangono, non ridono, non parlano, ma colgono fiori e cercano frutti selvatici. Sembrano identici agli indiani nordamericani sterminati il secolo scorso. Ma questi sono cristiani, o meglio cristianizzati nei secoli a suon di frustate e di catene. Le loro chiese barocche e fantastiche, odorose di muffa, di morte e di fiori appassiti, chiese in cui si celebra con la cocacola e il basilico, in cui ti tagliano la gola se ti azzardi a fotografare, sono luoghi di culto misti: madonne e sciamani, divinità indie e santi. E' l'equivalente del cristianesimo africanizzato con il voodoo dei santeros. Qui sono riti dei fiumi e del cielo. E questo funerale sta portando a dimora nel sacro terreno alla periferia di Tuxtla un povero morto sdentato che traballa su un carretto bianco, avvolto in una coperta bianca cosparsa di fiori di plastica. Le donne sono intorno al carro, i maschi dietro, i bambini avanti insieme a due capivillaggio. I ragazzini vengono a bussare al finestrino: chiedono cinque pesos per la vedova. Cinque pesos sono meno di un dollaro e le monete sono raccolte in un imbuto di latta che tintinna. Chiedo allo zapatista del grande raduno degli europei venuti qui il 27 luglio a celebrare in pompa magna, nel fango e nella pioggia, la dichiarazione di guerra al neoliberismo. Risponde: «I neoliberisti sono quelli che vogliono liberare la volpe nel pollaio affinché si mangi tutte le galline in nome del libero mercato». Non vorrei sembrargli troppo reazionario, ma gli dico come la penso: i mercati hanno sviluppato progresso, umanità e tecnologia, se siamo vivi e parliamo, anche via satellite, è merito della libertà dei mercati. Se le idee circolano, se la libertà circola, è merito prima di tutto dei mercati e dei mercanti. Non crede? Mi guarda con compassione: «I suoi compatrioti non la pensano come lei. Qui gli italiani sono tutti d'accordo: basta con la truffa dei neoliberisti, dobbiamo sviluppare la solidarietà. Il neoliberismo è soltanto egoismo e sfruttamento. Guardi questi indiani. Non vede che portano soltanto segni di sofferenza?». Gli dico che li vedo un po' troppo attivi con seghe e asce per distruggere le foreste. La conversazione si interrompe. Durante questo silenzio incrociamo i camion dei «retenes». Fra loro riconosco l'elettrauto di San Cristobai dove abbiamo cambiato le candele e il commesso della piccola libreria dove ho arraffato tutta la letteratura reperibile sul Chiapas. Arthur, lo zapatista a bordo, tira fuori dal finestrino la testa e li saluta militarmente. Quelli fanno altrettanto. Le loro anni sono M-16 americani. Questa guerriglia dell'Ezln, pronuncia E-seta, zapatista, sembra un fondale da teatro, una facciata comunicativa. Con un dettaglio che posso apprezzare soltanto dopo dieci chilometri di curve a strapiombo, quando un nitrito di cavalli consiglia la mia guida a fennarsi e subito vediamo gente armata che attraversa la strada, diretta nella forra. Passa un raggruppamento di zapatisti preceduti da ufficiali a cavallo, incolonnati per due, uomini e donne, in uniforme impeccabile e armi luccicanti. Ne conto sessanta. Fanno rumore di stivali e di sassi, nessuno parla. Sembrano veterani. Hanno cicatrici. Non sembrano le creature angeliche della foresta Internet agli ordini del Robin Hood Marcos, ex docente dell'Università di Xochimilco. Infatti, mi spiega Arthur, sono combattenti dell'Union Revolucciónaria Naciónal de Guatemala la temutissima Urng. E' così: Marcos non porta soltanto fax, modem, computer e volumi di sociologia, ma ha i suoi gurka: offre loro, con il consenso implicito del governo messicano, piena impunità extraterritoriale e loro ricambiano proteggendo gli zapatisti, indossando la loro stessa uniforme per sottolineare il patto di alleanza. Poi varcano la frontiera e vanno a compiere le loro incursioni in Guatemala. Quindi il Messico del presidente Zedillo, avendo accettato di sedere alla «mesa» delle trattative con gli uomini-Internet del subcomandante Marcos («sub», perché nella retorica del sociologo, il vero comandante è il popolo) ha implicitamente riconosciuto il santuario per gli insorti che cercano di rovesciare con la forza il governo del vicino Guatemala, con cui il Messico è in buone relazioni. Il subcomandante ha fatto dunque una mossa geniale: non combatte spargendo sangue, ma chiede soldi per gli indios al governo messicano, soffocato dal più catastrofico debito nazionale del mondo, costringendolo a elargire beneficenti erogazioni mensili che producono penose file di vecchi indiani laceri davanti agli sportelli bancari di San Cristóbal. E poi, ppr evitare che al presidente Zedillo possa saltare in mente un attacco militare, ha convocato nella foresta più di tremila persone di ogni continente (tutti appartenenti a una sinistra romantica, fondamentalista, geneticamente ostile agli Stati Uniti e al capitalismo, alla modernità e all'odiatissbno mercato) fra cui i più bei nomi dell'intellettualità della gauche divine francese e di mezzo mondo. La loro presenza, la risonanza che ne è derivata, le interviste, il profluvio di pagine www sulla rete Internet, hanno formato una gigantesca polizza d'assicurazione per lui stesso e per le sue truppe, nonché per gli insorti armati del Guatemala che forniscono protezione militare in cambio del salvacondotto c dell'impunità. Il subcomandante e imo studioso della comunicazione applicata alle ultime evoluzioni emozionali e ai miti dell'ex sinistra sessantottina: così ha imbroccato le strade adatte per trasformare la sua guerriglia incruenta e generosa (un solo mito: gli indios, un sono interlocutore: gli emarginati di tutto il mondo) in un centro di potere politico e militare che promette di espandersi e conquistare prima o poi il potere scavalcando le urne, o di esportare il suo modello anche negli Stati dell'America centrale dove le rivoluzioni tradizionali hanno miseramente fallito anche quando hanno conquistato il potere, come accadde nel Nicaragua dei sandinisti. «El Sub» ha un nome: si chiama Rafael Guillén Vicente, nato nel 1957, alunno modello in sociologia all'università di Mexico, dove con cerimonia ufficiale fu premiato come miglior studente dall'odiato nemico, il presidente Salinas de Gortari. Cattivo poeta, enfatico, frequentatore accanito di tutti i luoghi comuni cari all'ecologia, parla francese, spagnolo, inglese e le lingue indiane del ceppo Tzotzil. Riempie pagme e pagine Internet alla voce Centroamerica rivoluzione guerriglia e incanta moltissimi nordamericani afflitti da un giustificato senso di rimorso per il massacro dei loro indiani delle praterie. Al suo convegno nella foresta lacandoniana sotto la pioggia perenne sono intervenuti tremila pellegrini di tutto il mondo: italiani e francesi, ceceni e afghani, giapponesi, curdi, australiani e iraniani. Ma più che altro i bei nomi dalla sinistra parigina. Il glamour di quell'aristocrazia e il clamore mondiale della loro gita militante nella foresta tropicale hanno assicurato a Marcos e alla sua rete un successo garantito e il territorio virtuale, ma libero, del villaggio globale realizzato fra selve di antenne satellitari. Quanto alla politica vera e propria, alle proposte concrete, al manifesto di governo di Marcos e dei suoi, non esiste nulla: comunicati, lirismo, frasi e canti, dichiarazioni vibranti, innocue e banalmente condivisibili. Una ideologia senza sforzo, senza soluzioni economiche, senza analisi. Nulla. Ma parole fantastiche e immagini televisive, il fascino indiscreto della borghesia europea di nuovo a cavallo di un mito fresco e poco imbarazzante: chi volete che non sia d'accordo nel voler bene ai cittadini indigeni? E chi non sottoscrive una lista di improperi anticapitalisti e antiborghesi, previamente firmata da curati e vescovi, in nome della Teologia della Liberazione? Marcos è stato un eccellente studente, un bravo professore e ricercatore, ora ha inventato la rivoluzione facile. Chiunque osi ironizzare (ne ho esperienza diretta) viene subito sommerso da tonnellate di fax sdegnati, di deplorazioni ferocemente buone, indifferenti ai dati di fatto, ma inamovibili di fronte alle parole d'ordine retoriche. Paolo frizzanti (2 - Continua) E' qui la nuova Mecca dei nostalgici di tutte le utopie fallite La folla «gauchiste» venuta dall'Europa fa scudo ai ribelli Fra mille inni all'ambientalismo i campesinos spianano la giungla Ma tra gli innocui fan del nuovo «Che» s'infiltrano feroci bande dal Guatemala '3y- *<m* oc In alto i capi dell'EzIn riuniti a San Cristóbal e qui sopra una donna nel capoluogo del Chiapas [foto pier paolo preziosi]

Persone citate: Martin Luther King, Nelson Mandela, Rafael Guillén Vicente, Robin Hood Marcos, Salinas, Zedillo