IL GATTO E LA VOLPE di Filippo Ceccarelli

Sud Corea, uccisi altri sette agenti di Pyongyang IL GATTO E LA VOLPE società lussemburghesi o l'iniziatico profluvio di «partecipazioni bucate», «accordi para-sociali», «consulenze fittizie», «revolving» e quant'altro certifica l'impiccio di questi giorni. No, qui sono soprattutto i personaggi intercettati ad accendere la fantasia, e a rischiarare l'anima - se ò consentito - di un gruppetto di fantastici e indomiti imbroglioni, veri e propri virtuosi della mazzetta più «estrema». Alcuni già arrestati, o comunque a suo tempo abbrustoliti dalla P2 come Danesi, l'ex bisagliano che con civettuolo cosmopolitismo riequilibra la «fava lessa» con un inaspettato «cadeau». Oppure bruciacchiati sulla graticola di Tangentopoli come Pacini Battaglia, che, meno romantico di un Larini e meno aristocratico di un Mach di Palmstein, alterna la sua cadenza «tosco-macchiaiola» con sorprendenti «okay». Ma soprattutto certifica con intensità espressiva il linguaggio vero della corruzione: «sbrigarsela», «mettersi in tasca», «chiudere», «dare una mano», «incepparsi», «ungere», «non hanno firmato un'amata sega». Sbrigativo fino alla ribalderia: «Prendi il Geronzi e gli dici di non rompere i coglioni». E a suo modo solenne: «Noi si mangia uno di questi giorni: io, te, la tu' moglie e la mi' moglie». Non di rado, colto da empiti di entusiasmo persuasivo, Pacini Battaglia promette come un mercante in fiera: «Ti dò anche un amministratore delegato!», «Ti piglio un saudita!», «Una società di Dubai!». Ma in nome dell'amicizia resiste alle lusinghe di una seduzione femminile che la lettura dei dialoghi intercettati e tragicamente privi di punteggiatura, nella loro inevitabile bizzarria guardonistica rende ancora più grottesca. Uno che, proprietario di ineguagliabile sapere tecnico-finanziario, lo fa fruttare così bene, e con tali riscontri di prestigio personale, evidentemente, da rimanere totalmente prigioniero del denaro. E allora quasi si commuove a battezzare un conto corrente estero su estero: «Come lo vogliamo chiamare? Con un nome di fiori?». E quando esce il personaggio Pacini, beh, arriva, anzi ritorna quel Rocco Trane, già amministratore delegato della «sinistra ferroviaria» di Signorile e come tale coinvolto nelle «lenzuola d'oro», di cui si ricorderà senz'altro la strepitosa foto estiva in zoccoli e camicia slacciata su un enorme ventre. E la relativa battuta del giovane - era il 1987 - D'Alema: «L'alternativa non si fa con Cicciolina e con Rocco Trane». A questa gente in perenne e documentarissimo allarme rispetto a microfoni, cimici e microspie, dava dunque ascolto, e attenzione, e credito e magari anche fiducia Lorenzo Necci, l'imperatore-filosofo delle Ferrovie dello Stato, il manager illuminato che disegnava scenari, progettava il futuro, addirittura intendeva - come da titolo di un celebratissimo volume «Reinventare l'Italia». E a chi non voglia ridurre il tutto a una miserabile questione di quattrini, o a qualche misterioso - e inopportuno, sul serio - dovere di loggia, le ragioni di questa fiducia restano un mistero inglorioso. Tanto più inglorioso se si considera che con Necci i furbacchioni Pacini e Danesi si comportavano davvero come il Gatto e la Volpe con l'ingenuo Pinocchio. E ne ridevano pure, tra loro, anime perse, quando quello gli confessava di voler «pazzamente» fare il ministro. «Pazzamente?» e giù a ridere. E intanto se lo intortavano. «L'importante ecco Pacini - è che tu ti senta bene, che qualsiasi cosa si farà, l'importante è che tu ti senta bene». E Necci, appagato: «Non c'è dubbio». Mentre un dubbio, e forse anche due, tre, quattro, magari era meglio che se li facesse venire. Filippo Ceccarelli

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