Il manager che accontentava tutti

Ormai lontano dalla politica era stato sedotto dal tentativo di «governo delle riforme» poi fallito da Maccanico Il manager che accontentava tutti Scriveva poesie rimpiangendo Ugo La Malfa | TAL LA amata, e amara, I Paese senza eroi, Paese sen■ za miti...», aveva cominciato a declamare 1'«avvocato», con questa sua metafora sul «nuovo» e sui «nuovisti» dal colore molto noir, che parlava di «uomini di paglia», lanciati alla conquista del «potere che non c'è», di «eserciti di trucioli» che si infiammano per un «mozzicone di sigaretta», di foglie che servono a coprire «interessi nascosti di ogni sorta»1! è infine di una democrazia che «per sempre era morta»... Pareva si sentisse già una vittima, predestinata, l'agnello sacrificale di un sistema incancrenito e ingrato, mentre leggeva questa strana ode dolente e pretenziosa; che lui avrebbe voluto almeno un po' baudelairiana, e che invece per stile restava precariamente sospesa a mezz'aria, tra l'ironia di Maccari e lo sconforto crepuscolare di Gozzano. Sospesa a mezz'aria, d'altra parte, com'è sempre stata la vita di Necci, e come lo è del resto quella di tutti i boiardi, che per passare indenni nel sedicente traghettamento tra le due Repubbliche hanno dovuto galleggiare cambiando parecchi salvagente. L'avvocato ne ha cambiati, ma come dire, in modo generosamente equanime. Perché nessuno più di lui aveva compreso la lezione del cardinale Richelieu, al secolo monsieur Armand-Jean du Plessis. Nessuno più di lui ne aveva compulsato i preziosissimi Mémoires sull'arcana e secolare «arte di governo». Nessuno più di lui, insomma, s'era immerso nell'intramontabile sacerdozio del Potere. Lo aveva fatto da laico, ma mutuando da mezzo secolo di «lezioni» democristiane due valori essenziali: il doroteismo come strategia di gestione consociativa dei conflitti e l'andreottismo come tattica di riequilibrio di pesi e contrappesi, di compensazione e annullamento delle forze. Da questo punto di vista, la sua avventura nelle Ferrovie, fino alla caduta di ieri, era stata un capolavoro. Nelle innumerevoli riorganizzazioni della pletorica nomenklatura di Villa Patrizi, era riuscito a far contenti tutti (e non a caso, ieri, le grida più addolorate per il suo arresto, oltre che dai politici, venivano dai sindacalisti). Aveva tenuto buona la terribile «sinistra ferroviaria», sulla quale era caduto già il tosto Schimberni, affidando a Mauro Moretti, ex Filt-Cgil, la gestione degli investimenti del gruppo. La componente cislina, altrettanto potente, l'aveva blandita affidando la presidenza della Fondazione Bnc a Gaetano Arconti e nominando, tra i suoi bracci operativi, Luigi Di Giovanni, già consigliere di Ligato per conto dell'allora leader della Cisl Franco Marini. Per compiacere la corrente pomiciniana della de aveva assunto dall'Ansaldo Trasporti Emilio Maraini; per lusingare i socialisti aveva fatto crescere Sil- vio Rizzotti e Cesare Vaciago... Insomma, una perfetta alchimia di potere. Del cui esercizio, però, Necci sembrava in questi ultimi tempi sempre più annoiato. «Vede in giro un uomo con una tensione morale, che so, alla Ugo La Malfa? ripeteva -. No, non c'è più niente, la Sinistra vivacchia sui suoi allori, Berlusconi bada ai suoi interessi personali, e Fini marcia verso una deriva populista che fa paura...». Eppure, in questi ultimi anni, nella sua splendida casa ai Parioli, al primo piano di via Donizetti, li aveva invitati quasi tutti, i leader politici, compresi D'Alema e Bertinotti. Li aveva ammaliati con quei suoi modi regali e curiali, tra i sofà bianchi del suo salone, li aveva conquistati con le pennette al pomodoro del fido maggiordomo Renato e con la bella favola borghese, in questo caso autentica, della famiglia unita: lui, «papi» affettuoso, la moglie Paola, dama di classe, «mammina» per lo stesso Lorenzo e soprattutto per i figli, il mite Giulio e l'irrequieta Alessandra, scalpitante fan di Forza Italia. Niente a che vedere con le femmes fatales impellicciate del tramontato clan Ferruzzi, o con gli amorazzi arditi di altri industriali, o di altri boiardi... Politicamente accreditato di un flirt con il psi di Craxi, di un abboccamento con il pds, di una probabile candidatura con il Polo delle libertà alle ultime elezioni, l'avvocato negava sempre tutto: «Sono stato un convinto repubblicano ai tempi di La Malfa padre. Ma finita quella stagione, per me è finita anche la politica». Con un'appendice non irrilevante, però, allorché nel febbraio scorso il suo amico Tonino Maccanico aveva tentato la via del governo delle riforme. Quello, per l'amministratore delle Fs, era stato l'ultimo «treno» verso un altro traguardo, rispetto al mai raggiunto risanamento delle Ferrovie, e cioè la poltrona da ministro: in quei giorni di convulsa ma vana trattativa, infatti, stava per coronare il suo sogno, guidare un grande dicastero delle infrastrutture, e assemblava piani di riforma dello Stato consigliato da un altro epigono del Richelieu, il catto-socialista Gennaro Acquaviva. «E' vero - ammetteva Necci -, ho aiutato Maccanico, ma non ho avanzato autocandidature. Ora sono preoccupato per questa democrazia, tra il decadimento morale, la disoccupazione, il difficile ingresso in Europa...». Ecco, questo, è un altro tratto che colpisce nel personaggio Necci: questa sofferta doppiezza caratteriale, quest'ansia pessoana dell'uomo sospeso tra due abissi, «un pozzo che guarda il cielo», questo alternare progetti e pensieri «alti» a meno eterei «impegni» di ordinarissima gestione, con i quali ha poi finito comunque per sporcarsi le mani. In che misura lo diranno i magistrati spezzini. Quel che è certo è che, suo malgrado e per compiti istituzionali, è stato costretto a ficcarle nei due pozzi più inquinati del capitalismo all'italiana: la chimica da un lato, le ferrovie e il plurimiliardario mondo degli appalti dall'altro. Dal putrescente bubbone di Enimont, dopo esserne stato presidente nell'88, l'avvocato era uscito miracolosamente «pulito»: Cagliari si uccideva in carcere, Gardini si sparava a una tempia nella sua magione milanese, di fronte a Di Pietro sfilavano i politici del «Caf», faccendieri alla Cusani, bancarottieri allegri alla Carlo Sama e impenetrabili manager di raccordo alla Pippo Garofano, l'altro cardinale. Ma a lui, il vero Richelieu, Borrelli non ha mai avuto nulla da chiedere, sulla madre di tutte le tangenti. Nel frattempo, però, nell'ai- tra sentina storica del potere politico-affaristico - le Ferrovie appunto, fucina inesauribile di scandali, dalle lenzuola d'oro ai viaggi del Sestante Necci ha alternato grandi intuizioni (l'alta velocità, il sistema delle reti, il business del riordino del traffico a Roma per il Giubileo) a scelte più o meno «stravaganti», ancorché in linea con l'ecumenismo manageriale dell'uomo. Che dire ad esempio delle consulenze miliardarie a personaggi come Mario Alberto Zamorani, già amministratore delegato di Metropolis, cuore immobiliare del gruppo Fs, poi finito sotto i colpi di Mani pulite per i suoi trascorsi in Italstat? Che dire del repechage di personaggi come Gianni Bisignani, del lussuoso «ingaggio» di Nadio Delai, dello spot pagato a peso d'oro a Celentano? Che dire, ancora, della creazione di Efeso, cuore editoriale del gruppo con qualche centinaio di miliardi da spendere ogni anno, dietro alla quale si è mosso, con il piacet di Necci, l'ennesimo e ben pagato consulente, l'avvocato Elio Della Corte, habitué di Villa Patrizi, già rinviato a giudizio per associazione di stampo camorristico a Salerno? Qualche tempo fa, proprio Della Corte aveva anche lui notato un cambiamento nell'umore di Necci: achille - aveva detto a un amico in colorito vernacolo campano - quando sente nu' tricche tracche penza subito che è scoppiata 'na guerra...». Stavolta, forse, quello che aveva sentito Lorenzo il Cardinale, moderno monsieur du Plessis, era tutto fuorché un semplice tric-trac. E cosa sentano nel frattempo, in questa nuova e inattesa fiammata di Tangentopoli, gli altri manager pubblici e privati, Dio solp lo sa. Massimo Giannini Gli amici lo paragonavano a Richelieu: pochi come lui sapevano applicare la secolare «arte del governo» In casa sua aveva invitato tutti anche D'Alema e Bertinotti «ammaliandoli» con i suoi modi regali e un po' curiali Ormai lontano dalla politica era stato sedotto dal tentativo di «governo delle riforme» poi fallito da Maccanico Qui sotto: il ministro Antonio Maccanico e l'ex commissario delle Ferrovie Mario Schimberni

Luoghi citati: Cagliari, Europa, Gozzano, Roma, Salerno