Un Rubens in Padania

Aperta a Palazzo Te la rassegna dedicata a Domenico Fetti, grande interprete dimenticato del nostro '600 Aperta a Palazzo Te la rassegna dedicata a Domenico Fetti, grande interprete dimenticato del nostro '600 Un Rubens in Padania Al servizio dei duchi di Mantova IMANTOVA L 28 agosto 1622 Domenico Fetti, da sei anni pittore del duca di Mantova Ferdinan 1 do Gonzaga, si reca ad assistere a una partita al pallone. Scriverà al duca dal rifugio veneziano: «Con furia diabolica io mi sento crollare per le spalle, e sforzarmi di tormi in logo da un frate del rocchetto, non mai visto ne cogniosciuto». Rissa, duello, arresto del Fetti, licenziamento dalla corte, fuga a Venezia: «Son qui non per paura poiché a solo a solo non ho paura di nessuno, ma per non volere che sopra a gli occhi di sua Atltezzaj et mio padrone mi si faccia afronti poi che gli afronti si fanno facilmente e non si cancelono mai. Se ricevessi afronto e non perdessi la vita, mi creda non vorei più vivere, e morendo, vorei mostrare come colui si fa padrone di ciascuna vita, che la sua disprezza». E' un pittore che si rivolge al suo Signore e «padrone», ma con il conscio orgoglio di uno stoico classico o di un moderno ben padrone della retorica e della drammaturgia ispirata da Seneca. Dalla lettera emergono una psicologia e un carattere che corrispondono ottimamente ad una pittura eterodossa, fuor dalle righe del momento di dibattito cruciale fra ultima maniera e primo barocco - Rubens soprattutto è la sua guida in questo senso - e mirabilmente precognitiva delle future ricchezze e naturalezze del secolo; ma anche all'orgogliosa autocoscienza di un artista la cui grandezza è tutta da riscoprire ed è rivelata dalla mostra che si è aperta ieri in Palazzo Te (fino al 15 dicembre) a cura di Eduard Safarik, curatore anche del catalogo Electa. I visitatori di Palazzo Ducale potevano avere, anche i più distratti, un'intuizione di questa grandezza constatando che il lunettone della Moltiplicazione dei pani e dei pesci, con i suoi otto metri e mezzo di base, reggeva alla pari il confronto con la stupenda angosciante follia dei lacerti ricuciti della pala della Trinità con i Gonzaga di Rubens, fanfara archetipica del secolo barocco. Ma qui, dove il lunettone è al centro e al culmine di diecine di opere su tela e su tavola e su lavagna, grandi pale d'altare e serie sacre e profane di minor formato, fra il racconto bassanesco e il teatro, in un flusso continuo di straordinarie invenzioni cromatiche e luministiche, questa grandezza si impone con la stessa naturalezza del giovane Rubens ma con una presa più densa, più arrovellata sui materiali della realtà. Qui, per il giovane pittore già legato a Roma fra primo e secondo decennio all'allora cardinale Ferdinando Gonzaga, entrano in gioco i modelli veneziani - ma più il tardo Veronese e il maturo e tardo Bassano che non un Tintoretto di cui sento ben pochi echi a differenza di altri studiosi - e Caravaggio e Borgianni e i transalpini, Elsheimer soprattutto. Ma ciò che più stupisce ed affascina in Fetti è la sua capacità di reimpastare questi echi e queste culture e i paralleli con compagni di generazione e di strada, da Strozzi a Serodine, in una lingua mai vista nel suo essere in maniera indistinguibile colta, in un tempo in cui la cultura della materia pittorica è al suo culmine, e popolarmente vulgata, al punto da trasformare le storie della Passione in scene di genere, intrise di una religiosità vicina a quella dei Sacri Monti. E' ancor più evidente, questo aspetto, anche se si tratta di una commissione ducale per il Palazzo, nella serie delle Parabole evangeliche di cui sono esposti II seminatore di zizzannia e La parabola dei ciechi, tavole entrambe passate dalla collezione del Duca di Buckingham alle collezioni imperiali di Praga, la seconda approdata infine a Dresda. Il caso delle Parabole impone un doppio ordine di considerazioni: nei Ciechi la spregiudicatezza per così dire gestionale dell'artista abbina una natura ereditata dal tardo Veronese con figure che fanno trasmigrare l'eredità congiunta del Bassano e di Pieter Bruegel al futuro dei Bamboccianti olandesi-romani o addirittura di Giuseppe Maria Crespi; d'altra parte, le numerosissime copie-repliche della serie, come anche quelle di un assoluto capolavoro come II sogno di Giacobbe di Vienna (stessa trafila Mantova-Buckingham-collezioni imperiali austriache), ci parlano di un giovane imprenditore - morto a 35 anni - a capo di una fecondissima fabbrica pittorica. Un bel merito di Safarik, appassionato studioso il cui giusto amore per il suo soggetto giunge a pubblicare in catalogo una stupenda foto di Italo Calvino chino e contratto a meditare sulla miseria del mondo perfettamente sovrapponibile alla sublime Melanconia del Fetti all'Accademia di Venezia, uno dei quadri più belli e misteriosi del secolo, è stato quello di proporre visivamente il problema di Fetti imprenditore «moderno», esponendo quattro copie del Sogno, da Detroit, Monaco, Cleveland, Roma. Non è solo mi gesto di alta qualità scientifica: è la proposta della concreta realtà umana e professionale di un artista che fortemente impregnava di fisicità e di emozione ogni sua figura. Non solo umana. Basta reincontrare di quadro in quadro quello che era certamente il cane del pittore, il cui occhio di brace ci impressiona ai piedi del lunettone. Marco Rosei Pittore fecondo e spregiudicato tra sacro e profano «La melanconia» di Domenico Fetti in mostra a Palazzo Te, a Mantova