AMERICA viaggio in technicolor

Vattimo racconta la sua «prima volta» da semplice turista: così mi sono liberato dei pregiudizi europei e mi sono innamorato degli States Vattimo racconta la sua «prima volta» da semplice turista: così mi sono liberato dei pregiudizi europei e mi sono innamorato degli States viaggio in technicolor SANTA FE (New Mexico) I i QUANTA I pagine 1 i lette 3dJ venti giorni, e per giunta quasi esclusivamente di una guida turistica: ecco il record «negativo» della mia prima vera vacanza da molti anni a questa parte, in cui ho realizzato un vecchio desiderio, quello di vedere almeno una parte degli Stati Uniti da puro e semplice turista. Finora c'ero andato sempre da professore viaggiante: seminari, convegni, giri di conferenze, dibattiti in Istituti di Cultura... Per giunta, il tipo di persone che ho sempre incontrato in questi viaggi «di lavoro» mi era troppo affine - colleghi universitari, per lo più di formazione europea, o comunque europeizzanti perché potessi sentirmi davvero straniero. Del resto, solo di recente avevo cominciato, dopo un soggiorno piuttosto lungo in California, a non condividere più il pregiudizio diffuso presso tanti europei, che il meglio degli States siano New York, Boston, al massimo San Francisco e, già più problematicamente, Chicago, cioè i luoghi dove ci si ritrova quasi come in una città europea, dove si può passeggiare a piedi senza essere fermati come sospetti dalla polizia, dove ci sono vie e piazze e persino caffè all'aperto. Mi sono liberato di questo pregiudizio e ho cominciato ad amare Los Angeles - la cittàmostro che a tanti europei sembra l'emblema di tutti gli aspetti negativi, irrazionali, deliranti, della vita americana: lì, a parte poche zone che riproducono un microambiente cittadino, quasi tutto è grandi distanze da percorrere in auto, lungo sterminate avenues o autostrade urbane, e i luoghi dove «si va» - al cinema, al ristorante, a far la spesa - sembrano tutti grandi stazioni di servizio, giganteschi centri commerciali in mezzo a spazi quasi astratti, costellati di costruzioni basse tra le quali il negozio di computer non si distingue dalla lavanderia a gettoni o dalla clinica veterinaria. Ma aver cominciato ad amare Los Angeles era solo un inizio, una specie di introduzione alla passione per il paesaggio americano «autentico». Che sono andato a cercarmi percorrendo in automobile i deserti del Sud-Ovest: partenza dal Texas, poi New Mexico, Arizona, Colorado, e puntata finale di nuovo in una, molto particolare, zona «europea», New Orleans. Fin dal momento delle prenotazioni aeree ho dovuto prender atto che la mia idea non era affatto originale, lo dico con un po' di dispiacere ma non posso nasconderlo: difficilissimo trovare voli (almeno a prezzi turistici accessibili), pareva che tutti dall'Italia e dall'Europa avessero deciso di fare le vacanze in Texas e dintorni (poi però «on the road», sulle strade, ho incontrato pochissimi turisti, e tra questi pochissimi italiani). Ma per quanto poco originale l'idea mi si è confermata come formidabile: ho trovato gli spazi che avevo sognato al cinema, con le strade che si stendono davanti a perdita d'occhio facendo sembrare il cielo più alto di come lo conosciamo noi, mosse soltanto da tantissimi saliscendi che rendono meno insopportabili i limiti di velocità (non sei mai sicuro che dalla prossima discesa non spunti un camion tipo Duel); ho trovato i tramonti rossi dell'Arizona, più rossi che in tanti incredibili technicolor; ho provato anche il brivido di percorrere quando era già buio (poco dopo aver visitato Fort Apache) una strada nel deserto che sembrava non finire mai. Certo, l'esperienza dei deserti africani o asiatici è forse più autenticamente selvaggia, non c'è, come qui, la garanzia di trovare alla fine un motel con aria condizionata. Ma il godimento estetico del sublime naturale richiede appunto una certa condizione di sicurezza, la natura si apprezza davvero solo quando è relativamente addomesticata, e il bello (l'arte del turista) sta proprio nella sapienza con cui si mescolano i due aspetti. Questa mescolanza raggiunge forse i suoi livelli più alti - per quanto riesco a giudicare - proprio nel Sud-Ovest degli Stati Uniti. Non solo per la cura con cui sono costruiti e mantenuti i parchi nazionali (a cominciare, ovviamente, da quello del Grand Canyon; ma ce ne sono un gran numero di altri, con bellezze e atmosfere da togliere il fiato); ma anche perché proprio in queste regioni, che noi usiamo considerare con una certa sufficienza come prive di storia, si sono costruiti alcuni dei più begli edifici di questo secolo, e sono stati messi insieme straordinari musei d'arte che segnano e insieme sono segnati dall'eccezionale paesaggio naturale in cui sono collocati. Così, sebbene Houston e Dallas non siano esat¬ tamente nel deserto, lo straordinario fascino della loro architettura moderna e post-moderna (Philip Johnson, Renzo Piano, il cinoamericano Pei) può dispiegarsi in tutta la sua portata proprio perché si impianta in uno spazio vergme, da cui i grattacieli del centro si innalzano come una miracolosa macchia di alberi che moltiplicano la loro suggestione specchiandosi gli uni nelle superfici di cristallo degli altri, con giochi di colori che traggono il massimo dal variare della luce nelle ore del giorno. Tra gli edifici di Houston, bellissimi anche se per nulla imponenti ci sono la sede della Collezione De Menil, di Renzo Piano - la collezione è un vero capolavoro di museo, che spazia armonicamente dall'arte antica a quella contemporanea all'antropologia all'archeologia greca e romana - e la cappella Rothko, una grande aula ottagonale che ospita una serie di pannelli monocromi dipinti da Rothko nel 1965-'66, e che è insieme un luogo di preghiera interconfessionale e sede di incontri e seminari su temi etici legati alla lotta per i diritti civili. Sia la collezione De Menil, sia il Museo di Belle Arti di Houston e poi lo splendido Kimbell Art Museum di Fort Worth mettono il visitatore europeo di fronte a esempi di «amministra- zione» (conservazione, modi di esposizione, anche metodologie divulgative) del patrimonio artistico che rendono drammatico il confronto con il funzionamento dei musei italiani e, forse anche europei. Quel che colpisce di più, forse, nel miracolo architettonico di città come Houston e Dallas, è però la forza e persuasività di questi edifici che sono sorti quasi senza alcun riferimento preesistente: non guidati in alcun modo dall'esigenza di inserirsi in un insieme urbanistico storico, come sospesi in una condizione di assoluta purezza formale - certo non indipendenti dalle funzioni e dagli usi, ma liberi da ogni condizionamento che non sia quello della fantasia progettuale dei loro autori e delle possibilità dei materiali. Viene persino da pensare che i grattacieli, almeno questi grattacieli postmoderni dalle forme suggestive e non di rado bizzarre, siano l'architettura appropriata al deserto, con i cui orizzonti illimitati compongono una perfetta geometria di linee orizzontali-verticali. Naturalmente, pensava in tutt'altro modo il rapporto con la natura e con il deserto Frank Lloyd Wright, che proprio nel deserto dell'Arizona, a pochi chilometri dal centro (si fa per dire) di Phoenix, costruì la sua Taliesin, un insieme di edifici appiattiti sulle basse colline rossastre destinati ad ospitare la sua scucia di architettura, che funziona ancora oggi, in un'atmosfera di vita quasi conventuale. L'architettura «organica» di Wright interpretò il paesaggio americano soprattutto come vocazione all'orizzontalità; ma altrettanto geniale, e forse altrettanto organica, sembra oggi la verticalità di Pei e di Johnson, i cui edifici, proprio con il loro apparente accamparsi nel vuoto, corrispondono perfettamente al deserto da cui sembrano sorgere. L'esperienza del deserto americano è anche, piccolo ovvio paradosso, una esperienza di comunicazione intensificata: chi guida per ore e ore riscopre anche la radio, pochi notiziari (ogni ora circa, non ripetitivi, mi è parso, con l'aria di un continuo aggiornamento, come agenzie di stampa), molta musica - country, messicana, anche classica, con punte di raffinatezza moderna che non ti aspetteresti - e, ovviamente, pubblicità; in cui, oltre alla pizzeria del luogo, ciò che si reclamizza di più sono altre comunicazioni: preferite AT&T, o AMC (o qualcosa di simile) per le vostre telefonate interurbane e internazionali, ci sono questi e questi sconti. Sarà anche perche nel deserto il prodotto più vendibile sono le comunicazioni; ma forse, come nel caso dei bellissimi grattacieli texani, perché proprio qui, dove sembra che lo spazio sia fuori del tempo, il futuro si lascia sentire in maniera più netta e perentoria. Gianni Vattimo (1. Continua) Ero sempre andato da professore itinerante Ora ho trovato gli spazi che sognavo al cinema In auto nei deserti del Sud-Ovest, il godimento estetico del sublime naturale In alto Chaco Canyon nel New Mexico. Qui sopra Taliesin (Arizona), costruita da F. L. Wright, a sinistra la Cappella a spirale di P. Johnson e a destra una torre di Pei, entrambe a Dallas [FOTO G. VATTIMO)