Alle urne con i croati «Non saremo mai uniti» di Giuseppe Zaccaria

Alle urne con i croati «Non saremo mai uniti» Alle urne con i croati «Non saremo mai uniti» AL VOTO COME ALLA GUERRA PKONJC ADB.E Ivan Bcnder è un prete vecchia maniera, di quelli che indossano la tonaca come una corazza, se impugnano il crocefisso lo brandiscono e quando è necessario potrebbero calarlo senza problemi sulla testa dell'infedele. Un tipo di sacerdote che ad Oriente dei confini croati si incontra con una certa frequenza. Padre Bender però è anche candidato dell'Hdz, il partito che se a Zagabria e Mostar occupa lo Stato in Bosnia occupa già le trincee. Le sue tesi? Di una semplicità marmorea: «Qualsiasi città in cui i croati siano più di quattromila deve disporre di chiese, di scuole, di centri culturali croati e di un nucleo di polizia croata». Ma qui non siamo in Bosnia? «Siamo in una città che come molte altre in questo Paese è cresciuta grazie ai croati, si è sviluppata col lavoro dei croati». Che la croatissima Erzegovina cominci solo cento chilometri più in là è cosa che al nostro interlocutore non interessa. Soldato di Dio e colonnello di Tudjman, padre Bender non coltiva dubbi, ma lancia certezze come in un sermone ininterrotto. «La federazione esisterà finché i croati lo vorranno. Un esercito comune non c'è e non ci sarà mai. I soldati dell'Hvo devono essere pronti a rintuzzare l'arroganza musulmana». Riferendosi al verde dell'Islam, pochi giorni fa Kresimir Zubak, candidato alla presidenza collegiale, aveva urlato al microfono di un comizio: «Qui possono essere verdi solo le foreste e i prati». Basterebbe questo a far capire fino a che punto le «elezioni di pace» in Bosnia-Erzegovina siano preludio alla frattura di nuove faglie, eppure finora si è parlato solo di spigolature. Negli ultimi giorni, attraversando città che sono bosniache ma si sentono croate s'è visto e sentito di peggio. Ci sono luoghi che come Kiseljak appartengono a questa nazione ma adottano indisturbati le targhe automobilistiche dell'altra. Non è per dare un'idea a Bossi, ma è come immaginare le auto di Bergamo immatricolate in massa a Francoforte. Città come Vitez in cui l'altra mattina il candidato dell'Hdz Goran Blasevic inneggiava ai caduti in guerra, la guerra croato-bosniaca, con la formula «sia loro leggera la nostra terra» (la «Nostra»), Nello stesso comizio, proprio come i serbi a Pale, i sostenitori dell'Hdz brandivano centinaia di cartelli con la foto di un eroe. L'«eroe» dei croati di Bosnia è Dario Kordic, già comandante dell'Hvo, la milizia erzegovina, responsabile di non si sa più quanti massacri durante la guerra coi musulmani ed oggi for¬ malmente ricercato come criminale di guerra. A metà del comizio la gente ha cominciato ad applaudire e urlare ma non verso il palco: tutti si erano girati a destra, dove si alzava una specie di terrapieno. Non disponendo di foto del «criminale» non potrei giurarlo, ma tutto lascia credere che in quel momento Dario Kordic fosse lì. Quelle organizzazioni internazionali che così giustamente (e tardivamente) bacchettano le dichiarazioni indipendentiste dei serbi, mostrano nei confronti dei croati una disattenzione strana. Meglio, rassegnata. E' sempre più chiaro il fatto che, mentre a Nord i serbi di Pale si apprestano a sanzionare «democraticamente» la voglia di farsi Stato, sul versante opposto gli uomini dell'Hdz continuano a marciare verso un altro separatismo. La sola diversità sta nel fatto che i cat¬ tolici di Bosnia perseguono questo progetto per linee interne. Negli immediati dintorni di Sarajevo esistono municipalità intere, come quella di Stup, che si battono per un'autonomia ai limiti dell'indipendentismo. L'altro ieri la strada fra Doboj e Testic è stata bloccata da una manifestazione di croati guidata da ragazzini in grembiule nero, la tenuta che un tempo si usava nelle. nostre elementari ed anche da queste parti sembrava scomparsa. Un altro sacerdote, Ivan Pavlic ha condotto alunni e parrocchiani ai limiti della guerrigtta urbana perché nella scuola di Testic all'insegnamento croato erano state destinate solo due aule su dieci. La litania potrebbe proseguire: mentre in Bosnia si vota per l'unità, nella federata Erzegovina continuano attentati ed intimida- zioni contro i pochi residenti musulmani. Solo l'altra notte, a Livno, un furgone ed un'auto fatti saltare, un negozio bruciato, bombe contro due abitazioni, altre violenze. I poliziotti croati hanno verificato i danni, gli estremisti croati girano in centro e sbeffeggiano le vittime. «Noi offriamo la pace», recitano gli slogans dell'Hdz in versione frontaliera, «noi apparteniamo all'Europa». E' solo sul senso di questo «noi» che bisognerebbe intendersi. Per tutti i candidati, da Kresimir Zubak in giù, significa «noi croati di Bosnia», «noi accerchiati», «noi difensori della civiltà», «noi pronti a riunirci alla grande madre croata». Nel comizio conclusivo della campagna, Zubak ha ripetuto a chi ancora non avesse inteso: «Non può esserci convivenza fino al giorno in cui tutti i "mujaheddin" non saranno stati cacciati». «Mujaheddin» in questo caso, va letto esattamente come «ustascia» o «cetnick». Come trionfo degli schemi, semplificazione che vince, identità rivendicata per sottrazione. In quel che resta della Bosnia, ciascuno ormai riesce a definirsi solo in quanto diverso dall'«altro» ed è in questo clima che la terza etnia del Paese marcia trionfante verso la disintegrazione. Fra le microscopiche opposizioni c'è stato solo un certo Stanko Sliskovic, presidente dell'Hss, che abbia osato alzare la voce. Dice: «E' come se la chioma di un albero non riconoscesse le sue radici. Cinquantamila croati hanno già lasciato la Bosnia: la politica dell'Hdz punta a farne fuggire altri». Kresimir Zubak ha risposto ferreo: «Quel che fa un popolo che difende se stesso non potrà mai essere considerato crimine». Giuseppe Zaccaria Un musulmano prega nel cimitero di Sarajevo sventolando il vessillo delI'Sda di Izetbegovic