E la Volkswagen fa mea culpa di Emanuele Novazio
LA LETTERA Cade il tabù, l'azienda apre gli archivi per «documentare» il tragico passato nazista E la Volkswagen fa mea culpa Così usagli «schiavi» ebrei: una ricerca di Hans Mommsen BONN DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Negli anni della guerra, la Volkswagen reclutava operai fra gli ebrei prigionieri ad Auschwitz. L'azienda, spesso, li prelevava direttamente dai «trasporti» in arrivo dall'Ungheria - i treni piombati riempiti sotto la supervisione di Adolf Eichmann - e li trasformava in «lavoratori forzati» addetti alla costruzione di materiale bellico, dalle «VI» ai carri armati. Ma, ed è una novità importante nel panorama stori¬ co tedesco, è stata la stessa industria automobilistica a voler «documentare scientificamente» il suo tragico passato. Fra poche settimane arriverà in libreria una poderosa ricerca dello storico Hans Mommsen - il nipote di Theodor, studioso dell'impero romano - che per nove anni ha indagato negli archivi di Wolfsburg [Volkswagewerk und seine Arbeiter, Econ Verlag). Quello che emerge - anche alla luce delle recenti polemiche sollevate dallo storico americano Jonah Goldhagen, sostenitore della «responsabilità collettiva» dei tedeschi nei crimini del nazismo - è una tesi destinata a riaccendere il dibattito su temi controversi, disagevoli, dolorosi, per un Paese non ancora affrancato dal passato: «Non soltanto risentimenti razzisti o indifferenza morale, ma anche la mentalità tecnocratica dell'efficienza por- tarano al coinvolgimento nell'Olocausto», sostiene Mommsen. Il caso Volkswagen non è un'eccezione: ampi settori dell'industria tedesca, secondo lo storico, sarebbero ricorsi regolarmente agli «schiavi del nazismo» per alimentare la produzione bellica. Un problema di dimensioni umane e sociali enormi: nell'estate del 1944 si trovavano nel territorio del Reich sei milioni di lavoratori civili stranieri, due milioni di prigionieri di guerra, fra i 250 e i 400 mila prigionieri dei Lager registrati come «lavoratori». Gli «stranieri» rappresentavano quasi il 30 per cento del totale in tutti i settori dell'economia tedesca di allora, dall'agricoltura all'industria bellica. In alcuni comparti, la percentuale era del 40 per cento; nell'industria bellica addirittura del 50. Alla Volkswagen, documenta lo studio di Mommsen, la situazione era ancora più drastica: l'azienda era stata fra le prime a impiegare i prigionieri dei campi di concentramento, e negli ultimi anni della guerra aveva affi¬ dato a loro quasi interamente la produzione. Numerosi erano gli ebrei: la grande maggioranza sopravvisse, ma molti morirono dopo il trasferimento al campo di concentramento di MittelbauDora o nel Sud della Germania. La storia di quegli anni alla Volkswagen, annota Mommsen, «testimonia il crescente coinvolgimento della direzione e dei dipendenti delle fabbriche tedesche nella politica di violenza del nazismo»: una tendenza che «non fu arrestata nemmeno da Ferdinand Porsche, il grande costruttore artefice della VW». L'azienda di Wolfsburg convertita alla produzione militare, al contrario, rappresentò «una specie di microcosmo all'interno del sistema di guerra del Terzo Reich». Un caso esemplare, che la primavera prossima sarà al centro di un convegno internazionale di storici organizzato dalla Volkswagen a Londra. Il tempo dei silenzi e dei tabù è finito, fanno sapere i responsabili dell'azienda automobilistica, il «coinvolgimento nel nazi&mo della VW, come del resto di altre fabbriche tedesche, non è più contestabile»: il 1° giugno dell'anno prossimo gli archivi di Wolfsburg saranno aperti a tutti, all'interno di una Fondazione il cui scopo sarà uno, soprattutto: indagare il passato per riuscire a dominarlo. Emanuele Novazio
Persone citate: Adolf Eichmann, Ferdinand Porsche, Hans Mommsen, Jonah Goldhagen, Mommsen
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