Nel mercato globale tutto è più difficile di Alfredo Recanatesi

Nel mercato globale tutto è più difficile OLTRE LA LIRA Nel mercato globale tutto è più difficile L dibattito sulle implica, zioni economiche delle condizioni imposte per la partecipazione alla moneta unica europea, uscito dal provincialismo e dalla rissosità degli interventi politici, va assumendo un maggiore spessore utile non già per sperare in qualche correzione delle condizioni stesse, tutti i governi essendo ormai incastrati nel tenerle ferme come prova della loro determinazione e della loro credibilità, ma almeno per capire come e perché le cose, in Italia e nel resto d'Europa, stanno andando male. Tra i contributi più rilevanti di questi ultimi giorni conviene riferirsi a quello del prof. Giavazzi, che esprime fedelmente le posizioni in materia del ministero del Tesoro. Per contrastare la tesi di quanti vanno sostenendo una presunta antitesi tra rigore e sviluppo, Giavazzi ha ricordato su II Corriere della Sera, in base a dati del Fondo Monetario, che dal 70 al '95 su 62 episodi di sostanziali riduzioni del disavanzo pubblico, 14 hanno avuto successo riuscendo ad attivare una crescita del reddito, dei consumi, degli investimenti e dell'occupazione. Giavazzi ne conclude che tra rigore e sviluppo non vi è necessariamente contraddizione e che, anzi, i due obiettivi possono essere contestualmente raggiunti quando i governi diano dimostrazione di determinazione e di rapidità di azione. Il precetto per la definizione della prossima legge finanziaria è chiaro: sulla via del rigore occorre proseguire e, magari, anche accelerando il passo. La conclusione di Giavazzi è pienamente condivisibile, ma la sua argomentazione appare opinabile. Egli prende in considerazione ben un quarto di secolo durante il quale, nei vari Paesi, si sono verificate le circostanze più varie; e per buona metà del quale la finanziarizzazione e la globalizzazione dei mercati erano infinitamente inferiori a quelle di oggi o del tutto assenti. Inoltre, questi dati comprendono Paesi piccoli, geograficamente periferici, con economie satelliti di sistemi economici ben più grandi e da questi interamente dipendenti. Infine, il fatto che rigore e sviluppo siano stati contestualmente raggiunti in meno di un quarto dei casi non sembra davvero una dimostrazione probante dell'assunto secondo il quale essi possano essere conciliati quando vengano perseguiti contemporaneamente in Paesi grandi, sviluppati e contigui come sono Germania, Francia, Italia e Spagna. Se consideriamo il caso dell'Europa, hic et nunc, la causa per la quale il rigore ha condotto alla stagnazione piuttosto che allo sviluppo sembra data non tanto dalle titubanze e dalle lungaggini della politica (alle quali va pure riconosciuto qualche diritto di cittadinanza quando derivino da preoccupazioni per l'equità distributiva), quanto dalla mancata sostituzione dell'economia privata o privatistica nell'utilizzare all'interno le risorse che il settore pubblico va econo- mizzando. I governi, quindi, lasciano sul mercato una quantità di risorse maggiore di prima, ma queste risorse, affidate al gioco delle convenienze reddituali che la globalizzazione ha smisuratamente ampliato, anziché venire impiegate per investimenti più produttivi emigrano verso i Paesi emergenti, magari per finanziarvi fabbriche sostitutive di quelle attive in Europa. Se questo è il processo a motivo del quale il rigore genera stagnazione e disoccupazione, il rimedio non può essere soltanto una intensificazione delle politiche di rigore, intendendo per tali sia ulteriori tagli di spesa pubblica e riduzioni del prelievo fiscale, sia condizioni di impiego del fattore lavoro che possono competere con quelle dei Paesi emergenti. Viene da pensare piuttosto ad un recupero del ruolo che il settore pubblico può svolgere realizzando (o promuovendone la realizzazione) investimenti strutturali il più possibile sostitutivi di quelli che vengono realizzati per trasferire le manifatturazioni all'estero. Nell'immediato si avrebbe il vantaggio di sostenere l'occupazione e, con essa, la domanda di consumi; la difesa dei volumi di produzione agevolerebbe la difesa della produttività e, quindi, dei costi. In prospettiva, si creerebbero condizioni per l'insediamento di attività produttive in Italia più competitive, anche in presenza di costi del lavoro più elevati. Forse non manca chi ritiene sufficienti queste tesi per iscrivere gli eventuali sostenitori al «partito della spesa» e, così, condannandoli pregiudizialmente. Valgano, però, due considerazioni. La prima è che l'equilibrio delle finanze pubbliche - il cui perseguimento non può non essere confermato - non dipende solo dal Livello della spesa, ma dal suo rapporto con le entrate; e il prelievo di risorse, quando venga effettuato per accrescere l'utilità collettiva del loro impiego, non è affatto da escludere e tanto meno da condannare pregiudizialmente. Anzi, forse è proprio questo il modo per poter conciliare rigore e sviluppo, più e meglio di quanto altrimenti oggi si possa fare. La seconda è che lo «Stato banchiere», lo Stato cioè che intermedia risorse per conseguire finalità altrimenti non conseguibili, ha lasciato di sé una memoria pessima, ma non è affatto detto che, nell'attuale diverso sistema politico, non possa svolgere con maggiore efficienza un compito del quale comunque, si avverte sempre più il bisogno. Alfredo Recanatesi es^ Vito Gamberale

Persone citate: Giavazzi, Vito Gamberale

Luoghi citati: Europa, Francia, Germania, Italia, Spagna