I FILOSOFI FANNO GANG di Giorgio Pestelli

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Giorgio Pestelli CON un pensiero particolare al pubblico nuovo della manifestazione torinese di Settembre Musica, ormai di rilievo europeo, che in molti casi s'interessa per la prima volta al fenomeno musicale, il libro che consiglio è quello di Giovanni di Stefano, La vita come musica, uscito a Venezia nel 1991 per i Saggi Marsilio e dedicato al mito romantico del musicista nella letteratura tedesca, da Wackenroder e Tieck a Hesse e Thomas Mann. E' un libro che testimonia come la complessità «spirituale» della musica sia ancora maggiore di quella complessità «tecnica» che tanto spaventa e allontana l'appassionato dilettante; attraversando decine e decine di racconti, novelle e romanzi in cui l'eroe protagonista è un musicista, si scoprono dimensioni insospettate dell'esperienza di ascolto e si percepisce che la musica è sopra tutto libertà interiore: e capito questo, il mondo può diventare più bello. FELETTO UMBERTO (Udine) APOLEONE lo chiamava il coraggio delle tre del mattino. Un'ora miracolosa, come Paolo Maurensig sa: «Mi svegliai all'improvviso, chiarissima in mente la trama. Andai nello studio, riempii un quaderno di appunti. Quando tornai a letto, verso l'alba, si svegliò mia moglie, ansiosa: "Vuoi una camomilla?". "No - la stupii -: scendo piuttosto in cantina a prendere una bottiglia di champagne: dobbiamo brindare alla storia trovata». Svanì così, di notte, l'eventuale incubo, o solo fastidio, che accompagnava l'ex agente di commercio, oggi cinquantatreenne, goriziano d'origine, dal '93 signor bestseller con La variante di Lùneburg. Centosettanta, centottantamila copie vendute, traduzioni un po' ovunque (è appena arrivata nella villetta ovattata la versione in greco), un curioso incaponimento alemanno: «Un critico ha avanzato l'ipotesi - fondata sul mio cognome, in tedesco "la vittoria dei Mori" - che io non esistessi, che il romanzo lo avesse commissionato un editore di là/salvo farlo uscire in Italia per confondere le tracce». E invece Paolo Maurensig esiste, non guardingo, non misterico come nei giorni dell'esordio. Un pizzetto giocosamente mefistofelico, il fisico pacificato, una devozione speciale per gli indigeni Cabernet e Chardonnay. E i vini, a dar retta a Simenon, «amplificano i sentimenti», favoriscono il dialogo, sciolgono il riserbo. E dunque: la sfida è superata, La variante non è un «a sé», la seconda prova, Canone inverso, in copertina «Lo scorticamento di Marsia», un Tiziano «ritrovato» nella Cecoslovacchia che fu, sta raggiungendo le librerie. Con una novità: il cambio di editore, da casa Adelphi alla Mondadori. Perché? Un'offerta (chi dice quattrocento mihoni) a cui sarebbe stato insano opporre il rifiuto? Screzi con Roberto Calasso, il demiurgo di via San Giovanni sul Muro? «Nulla di tutto ciò - sfarina le voci di corridoio Paolo Maurensig -: semplicemente si tratta di un congedo dai genitori, di una sortita dalla bambagia. Un evento naturale e salutare». Ieri, nella Variante, dominavano gli scacchi, in quelle pagine tese, ciniche brillava infine un ordigno solcato da torri e da alfieri, da semplici pedine e da re, e da regine. Oggi, nel Canone inverso, a signoreggiare è la musica, pulsano Bach e Mozart, Mendelssohn e Beethoven. La vicenda si dipana attorno a un violino secentesco di Stainer, con una rarità: «Una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere al posto della chiocciola tradizionale». Ed è subito una fuga à rebours (il canone inverso non rimanda unicamente a un'architettura in sette note), nel mondo di ieri di Stefan Zweig, dove «ogni muscolo diventava bocca e si percepiva la passione fuoriuscire quasi dai pori». Eccoci (rieccoci) a Vienna, come nella Variante, la capitale che è il vizio di Paolo Maurensig: «Per noi di Gorizia, definita la Nizza dell'impero danubiano, esercita un richiamo intenso, assoluto. L'idea del Canone mi è venuta passeggiando nel cuore ammaccato della felix Austria. Ho incontrato un violinista, di classe, mi ha catapultato indietro di trent'anni, a Milano, ancora un violinista di valore: gli domandai di eseguire un brano non facile, non accettò». Nel Canone l'offerta è di mille scellini, l'esame è uno spartito di Bach, la «Ciaccona», il bohémien «vestito come un cocchiere», «gli abiti lavati dalle piogge», lo supera sulla pedana di un'osteria. Siamo nell'agosto del 1985: l'eco di Chagall, Jenò Varga, natali ungheresi, accetta di raccontare la sua vita a chi ne ha intuito lo speciale talento, uno scrittore, suonatore di violoncello «per puro diletto». Come Paolo Maurensig: «In famiglia gli strumenti non difettavano. Mia madre cantava. Io cominciai seriamente a salire e a scendere la scala musicale a trentanove anni: flauto dolce, flauto barocco, viola da gamba, quindi il violoncello». Chi è Varga? Di chi è davvero figlio? Il castello biografico che edifica è autentico o un miraggio? Narra e ancora narra. Tredicenne, un padre forse disperso in guerra - due oggetti lo perpetuavano: un medaglione d'oro e un violino -, vince un concorso, varca la soglia del terrifico Collegium Musicum, dov'erano lievitati i Wieniawski, i Flesch, gli Hubay. Una selva oscura: «Credo che nulla si avvicinasse di più all'immagine evangelica deU'inferno «Canone inverso»: un musicista, un terribile Collegio viennese, l'inesorabile marcia dell'Europa verso l'Olocausto, un'amicizia con il feroce tarlo della gelosia e un'identità imperfetta e inajferrata IL MIO STAINER Tra dolore e maledizione LO strumento era in buone condizioni. Forse non era stato trattato con molta cura, ma di sicuro non necessitava di delicati interventi di liuteria, se non per qualche minuscola scheggiatura e per la vernice scomparsa in varie parti, e in un punto soprattutto, sul fondo, dove s'intravedeva il nudo legno: evidentemente il violino era stato sempre adoperato senza spalliera. Un particolare notevole era costituito da una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere al posto della chiocciola tradizionale. Particolare insolito per un violino, perché normalmente queste minuscole sculture lignee si ritrovano sulle viole e sugli strumenti più grandi, rappresentano per lo più teste leonine o volti grotteschi, e hanno un significato più scaramantico che ornamentale. Questa invece riproduceva molto finemente il volto di un uomo, si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l'espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione. Avevo sempre pensato che quello era l'ultimo violino di Stainer. In quel volto egli aveva forse voluto ritrarre la furia della pazzia che si approssimava e che l'avrebbe portato alla morte. Paolo Maurensig con il suo pianto e stridor di denti». Ottusi, meschini, marci, i «maestri». Un motivo supremo per resistere: il fascino della concertista Sophie, il desiderio di emularne lo stile mirabile. «Una fortezza-metafora - spiega Maurensig -: simboleggia gli ostacoli che il Male, la potenza che è, frappone al raggiungimento della sapienza, della saggezza. Non a caso Sisifo che sospinge il masso è lo stemma del disperato lido». Non a caso, come nella Variante, il fondale della parabola è la stagione fra le due guerre, irreversibilmente proiettata verso Auschwitz. Tocca ai musicisti annunciare la catastrofe. Varga, attingendo al Genesi, grida, urla: «I musicisti sono la stirpe di Caino». Maurensig li convoca per esemplificare i decorsi paralleli: si sviluppa la civiltà (Bach, Beethoven...) e, insieme, il degrado delia civiltà («Ma ormai la musica a Vienna erano le marce militari .... In tanto marziale clangore, mi chiedevo, che ruolo avrebbe avuto il mio violino?»). Come non ricordare il violino di Zargani, una «memoria» pubblicata nel '95 dal Mulino, che interpreta Bach, l'aria perentoria che «ordinava a tutti i giorni dell'ira e della giustizia»?. Gh scacchi della Variante, le armi improprie di una vendetta ad hoc per il boia di Bergen Belsen, nel Canone si risolvono in una labile comparsa. Nell'interpretare l'ossessione della perfezione («la perfezione sempre a un gradino della perfezione») li ha sostituiti la musica: «Un dramma, un incubo, un ro¬ vello feroce - interviene Paolo Maurensig -. A mano a mano che si affina il talento ci si scopre disarmati, inermi, arresi al nulla, prigionieri del limite. Come l'allievo del Collegium che, promosso a pieni voti, votato a un futuro magico, si suicida». Nel Collegium nasce l'amicizia fra Jenò Varga e il tirolese Kuno. Un rapporto quasi mai placido («Ciò che aveva trovato il suo supremo compimento nella folgorazione iniziale aveva già da tempo cominciato la sua corsa retrograda, il suo conto alla rovescia, o, se vogliamo usare un termine musicale: il suo canone inverso»). Il tarlo della gelosia (Jenò, al violino, sovrasta Kuno). E, in particolare, di un'identità imperfetta, inafferrata e inafferrabile, intravista e in un amen sparita, dissolta. E' il «doppio» il tema, la chiave del Canone inverso. «Non legati da vincoli sangue, Jenò e Kuno? 0 fratelli? 0 fratellastri? Una scissione della personalità? Una forma di possessione animica?». E' Paolo Maurensig a inanellare, a sollecitare interrogativi, a esigere che l'opera resti aperta. «Il doppio? - concede -. Preferirei evocare, secondo il vocabolario junghiano, l'Ombra: il deficit, il demonio, l'Anticristo, l'alter ego negativo». Forse il Canone è un omaggio al «non praevalebunt». Forse la speranza è proclamata in due righe: «Oggi del Collegium Musicum non rimane più traccia se non una pietraia ricoperta da erbacce». Maurensig, come l'amatissimo Nabokov, ostenta la tranquilhtà di chi sa che cosa è «la cosa: non l'angoscia grossolana della morte fisica, ma gh incomparabili tormenti della misteriosa manovra mentale necessaria per passare da uno stato di esistenza all'altro». Bruno Quaranta In alto: Bach. E' dalla «Ciaccona» che muove il nuovo romanzo di Paolo Maurensig (foto grande, di Danilo De Marco) I FILOSOFI FANNO GANG Arriva il «pensiero ladro» PROFESSIONE filosofo. La filosofia può essere buona per tanti usi, come un grimaldello per aprire tante porte. Avete mai provato a concepire la speculazione filosofica come qualcosa di molto pratico, di estremamente utile per la vita di tutti i giorni? Se non l'avete mai fatto affidatevi all'ultimo bestseller anglosassone del trentasettenne scrittore emergente Tibor Fischer, La gang del pensiero (che uscirà a giorni da Garzanti), un thriller comico-filosofico che impiega il pensiero filosofico allo stesso modo di una pistola puntata alla tempia. Il nuovo romanzo di Fischer è concepito alla maniera del Mondo di Sofìa, strepitoso successo di Jostein Gaarder, che offriva dotte disquisizioni e storia del pensiero, cucinati in forma romanzesca. Mentre i pensatori (ultimi della serie Aldo Gargani e Stefano Zecchi) abbandonano Kant e Hegel e si lasciano sedurre dal romanzo, i narratori indossano panni speculativi e mescolano racconto e storia della filosofia. Eddie Coffin, docente universitario, filosofo fallito, erotomane e ubriacone, è il protagonista del libro di Fischer. Il grassoccio e calvo antieroe di difetti ne ha a bizzeffe: il suo sommo disprezzo va alla dottrina da lui insegnata perché tutto il suo sapere si è rivelato inutile, privo di qualsiasi efficacia e non ha saputo difenderlo nemmeno dai suoi vizi. Al massimo gli è servito per procurarsi l'ammirazione e i favori di qualche studentessa (bruttina) che lui si è ben guardato dal rifiutare. «Chissà - riflette Coffin - magari se mi fosse rimasto un briciolo di fiducia di aprire nuovi sentieri nell'ambiente della filosofia, sarei riuscito a tenere a freno la mia ignobile natura... Come pensatore l'unica cosa che riuscivo a fare era una sorta di inserviente da museo che spolvera qualche pensiero e sposta di tanto in tanto qualcuno degli oggetti». Nel campo, da secoli aratissimo della speculazione, ormai non spunta più nemmeno un filo d'erba: «Sarebbe magnifico se arrivasse un genio e mettesse un po' d'ordine nella storia del pensiero, che ci strabiliasse tutti... Quel che temo, però, è che ci sia rimasta solo la possibilità di qualche aspra scaramuccia nelle note a pie pagina, di spostare qualche virgola, di duellare nelle rubriche dedicate alla posta dei lettori». Stanco di mettere virgole e di ripercorrere strade battute da millenni («posso assicurarvi che non c'è una sola idea su cui i greci non avanzano diritti di proprietà; avevano già radunato tutti i concetti molto prima della nascita di Cristo»), l'insegnante, inseguito dalla polizia del suo Paese per essersi trovato coinvolto in un losco affare, ripara nella patria di Montaigne, scrittore da lui amatissimo. Dal momento che il panciuto docente concepisce l'esistenza come una cavalcata attraverso i più dispendiosi piaceri, la sua fondamentale preoccupazione è come fare ad avere i quattrini per godersela fino in fondo. L'ex accademico, noto ai colleglli più per le sue porno-mclinazioni che per i suoi scritti, si arrovella per trovare una via d'uscita. Ad un tratto l'illuminazione. «Avere in mano una pistola è come essere dalla parte giusta in un dialogo socratico». Coffin non rinuncia al suo patrimonio mtellettuale ma pensa di sfruttarlo a dovere. E si butta nel crimine, avendo trovato un compare che, in quanto ad abitudini dissolute, è proprio alla sua altezza. In mi grottesco delirio speculativo in cui Platone, Nietzsche, Diderot, Kant e altri offrono il supporto della riflessione alle canagliesche avventure, Coffin svaligia banche, gioiellerie e affini. Stupefatto è l'impiegato di uno sportello bancario quando si trova davanti quello che ritiene un rapinatore incallito che lo minaccia. «Per lo Zeitgeist di tua madre esigo il denaro». Il linguaggio filosofico è proprio un bel grimaldello, un piede di porco anzi. I sacri testi offrono spunti e idee funzionali per i furti quanto una mitraglietta ultimo modello. Persino, quando i due rapinatori decidono di consegnarsi nelle mani della polizia, riescono a farla franca. Procedono in un modo così ovvio, ricco di buon senso, che i pohziotti li credono degli studiosi e li cacciano via dalla prigione. L'astuto pensatore e il suo compare sfuggono alla concorrenza delle altre gang e le surclassano in abilità. Anche Hubert, il fedelissimo di Coffin, ricco dei suoi insegnamenti, impara a fare un po' di speculazione: «Gh volevo far saltare il pisello. Ma poi mi sono messo a ragionare più filosoficamente e ho pensato: l'esperienza gh avrebbe insegnato qualcosa?». Quale la filosofica conclusione di tutto questo delirio comico? La filosofia insegnata dai filosofi a scuola non serve a niente; ma la filosofia, fuori dalle aule universitarie, per la gente comune può far molto. I due pigri e violenti malandrini finiscono per incarnare un inno vivente alla bistrattata disciplina. Ai filosofi-aspiranti malfattori che siano tentati da un'esperienza analoga un consiglio: non provare. «Anche la disonestà è un lavoro duro». Parola di ladro-filosofo. LA GANG DEL PENSIERO Tibor Fischer Traduzione di R. Duranti Garzanti pp. 384 L 28.000 Mirella Serri