PANE AL PANE Ma è la cultura che fa l'unità d'Italia di Lorenzo Mondo

=1 PANEALPANE Ma è la cultura chefa l'unità dltalia L Presidente della Repubblica ha rotto il silenzio che si era imposto, ha speso la sua parola contro i propositi di secessione coltivati in riva al Po. A Venezia, la città del rogo della Fenice, inaugurando la mostra del Tiepolo, ultimo esemplare di una stagione irripetibile dell'arte italiana. Ha proclamato che «nessuno può toccare l'unità del Paese», si è detto commosso ogni volta che gli accade di correre con lo sguardo sul tetto dei Piombi, dove Pellico e Maroncelli ebbero la prima stazione del loro calvario. Un bello spirito avrebbe potuto opporgli il ricordo di un altro detenuto eccellente delle segrete dogali, Giacomo Casanova, autore di una spericolata evasione. «Le mie prigioni» contro «La mia fuga dai Piombi». L'eroe del Risorgimento segnato da un'acuta propensione al martirio e l'avventuriero cosmopolita, preoccupato soltanto di costruire, energicamente ed esteticamente, l'unità di una vita, testimone di un tempo in cui (poco più di due secoli addietro) l'Italia non era. Questo per dire che nessuno può certo toccare impunemente ciò che si presenta forte e compatto, ma neanche quello che non è mai esistito o rischia di non esistere più. Davanti all'ipotetico bivio, le iniziative di Bossi e della Lega costituiscono poco più di un pretesto, un accidente, una foruncolosi che lascia inespresse le radici di un malessere. Che induce a riflettere su una certa idea di convivenza, se lo stare insieme sia giustificato dall'interesse e dal comune sentire. E se l'interesse, al di là di possibili patteggiamenti, continua a esistere, è il resto che sembra fare difetto, è la presenza e la qualità della cultura, intesa nel suo senso più ampio, che lascia a desiderare. Gli storici dibattono da tempo sull'offuscamento dell'unità nazionale risalendo al trauma della guerra perduta, alla ineguale risposta davanti ai problemi della ricostruzione dello Stato, agli scossoni provocati dalla nascita del «villaggio globale». I sociologi riflettono sulla omologazione agli standard internazionali che non trovano difesa in uno zoccoI lo duro di valori condivisi. I I giornali documentano, con la crudele innocenza del giorno per giorno, con l'implacabilità dell'effimero, il collante perverso della criminalità, dell'irresponsabilità civile, dell'inefficienza; insieme al velo che avvolge una società ipnotizzata e instupidita da quiz e concorsi, da esibizionismi vacui, da cronache pettegole e voyeuristiche che chissà perché continuano a definirsi rosa. Non è soltanto l'idea dell'Italia, ma delle stesse Regioni che dovrebbero servire di base ad una nuova statualità, a essere dismessa, a perdere il timbro originale che esalta, nella differenza, il concerto della nazione. E' di ieri la passionale rampogna di un artista come Uto Ughi contro la decadenza della cultura musicale, i miscugli di Verdi e di Zucchero, i cori «da osteria» di Pavarotti, il cedimento al rullo compressore del rock che distrugge anche le espressioni di musica popolare. E Gian Enrico Rusconi ha segnalato, davanti alle provocazioni leghiste, la pochezza degli uomini di cultura che si limitano a uno scettico dileggio senza esprimere * nessuna forza ideale e propositiva, che manifestano uno spirito dimissionario, una fuga dai Piombi della responsabilità morale e civile. E' un male antico della nostra intelligencija, che si aggiunge all'incultura storica di cui è responsabile, con la scuola, la classe dirigente nel suo insieme. E' la deriva dell'Italia verso una pura espressione geografica che potrebbe insidiarne l'unità. E' di qui, con o senza Bossi e i suoi «barbari» innocui, che bisogna ripartire. Per rinvigorire e riaggiustare il nostro modo di essere davanti alle grandi sfide della globalizzazione e dei flussi migratori. Quanto alle sparate di Bossi una volta, dalle mie parti, sarebbe bastata una scrollata di spalle, l'appello a una soda e ironica saggezza: «Esageroma nen», non esageriamo. Lorenzo Mondo ido |

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