L'abbraccio del grande fiume dai piedi del Viso all'Adriatico

L'abbraccio del grande fiume dai piedi del Viso all'Adriatico L'abbraccio del grande fiume dai piedi del Viso all'Adriatico RICORDO, anni fa, l'atteggiamento misto di incredulità e ironia di un forestiero arrivato per la prima volta a Torino. Appoggiato al parapetto del ponte, vicino alla Gran Madre, disse: «Tutto qui, il famoso Po?». Il fiume che scorreva lento sotto i suoi occhi gli sembrava troppo stretto per contenere la leggenda risorgimentale, le promesse turistiche. Bastava paragonarlo ad altri fiumi europei e alla sua stessa distesa abbondanza nella pianura lombarda, alla generosa dissoluzione del suo estuario nel Mare Adriatico. Dimenticava, l'amico, che al fiume erano bastati pochi chilometri di vita per crescere così robusto e ambizioso, che per metà del suo percorso non si era distinto da altri fiumiciattoli e torrenti, che aveva dovuto dissanguarli per conquistare la pianura e presentarsi in aspetto convincente alle porte di Torino capitale. Parlando del Po, non possiamo dimenticare che è nato ai piedi del Viso, quella cuspide solitaria che scava il cielo a Occidente: là dove il Piemonte è più Piemonte, il più irriducibile e fedele. E le sue acque sembrano a tratti conservare un sentore di montagna, di brezza e insieme di pietra. Non lasciamoci ingannare dalle pigrizie della breve estate nordica, dal volo insipiente dei gabbiani che rubano spazio alle anatre selvatiche. Guardatelo, il fiume, nelle nebbie solidali dell'autunno, nelle gelate dell'inverno, nelle primavere asprigne che portano a valle terriccio e ramaglie. Subito lo restituite alle sue sorgenti, diventa specchio ed emblema di una geografia dell'anima, di un ethos faticoso e paziente. Torino, e il Piemonte, non possono fare a meno, nel definire la loro identità, della montagna e del fiume. Ci sono terre di pianure apparta- te, di colline che sembrano bastare a se stesse; ma sempre, al di là degli spazi neutri e dei dossi ondosi, presuppongono l'appoggio solido della montagna, il dinamico azzardo del fiume. Questo nostro Po, come sbocca in pianura, incontra le terre del marchesato di Saluzzo in un'eco di fioriti costumi, di cavalleresche tenzoni. Sfiora Staffarda, che racconta i saccheggi delle armate francesi, saluta castelli sabaudi che l'accompagnano, con suono di smorzata fanfara, a Torino. In alto, pareti rocciose e boschi fitti; intorno campagne irrigue e ventose, ricchi pascoli. Dopo la parata nella città, sempre vigilato dalla Basilica di Superga, lambisce la collina preziosa, trova sfogo sotto le antiche piazzeforti di Verrua e Casale, segna il confine tra il Monferrato e il Vercellese, dove le ultime vi¬ gne scoscendono in questi giorni sul biondo umido delle risaie. Prima che quest'antica via dell'ambra si apra la strada verso l'orafa Valenza, verso le terre lombarde. Non so se i Savoia, quando scelsero di piantare a Torino la loro capitale si lasciarono sedurre anche dal corso del Po, dove secondo una tradizione mitologica era precipitato il carro di Fetonte, figlio del Sole. Certo le sue acque, oltre all'amenità, garantivano provvigione e difesa. Certo, da quando si ha memoria d'uomo, le sue rive non furo- no mai deserte. A partire dagli oscuri Taurini, che contrastarono duramente Annibale e si piegarono alla forza e ai costumi di Roma. Erano pescatori, cacciatori, barcaioli, coltivatori (antenati forse dei moderni produttori di primizie) sulle prime balze della collina, in faccia al fiume. Come accadeva ancora poco più di un secolo fa. E nei miei ricordi di ragazzo vedo allegre brigate di artigiani e operai, modeste famiglie scendere sulle sue rive per feste e merende, tentando il bagno in acque limpide. Pas¬ savano lenti i vogatori, si alzava il grido di qualche madre che paventava per i figli inesperti gli scavi delle draghe. Si partiva con le borse stipate di cibo, con l'anguria e il fiasco da mettere al fresco, qualcuno con la fisarmonica a tracolla. Se per qualsiasi città un fiume rappresenta una vena pulsante e viva, un respiro profondo, tanto più questo vale per Torino che ha consegnato al Po tanta parte della sua storia, delle sue immaginazioni ed emozioni. Della sua cultura. Dal Valentino si affacciava sul Po, negli anni delle grandi esposizioni universali, della nascente industria cinematografica, delle società ginniche, il bel Guido Gozzano, spossato da galanterie e malinconie. C'è stato un tempo in cui alcune delle migliori intelligenze sognarono di rinverdire su queste acque il mito dei Mari del Sud e dell'America, di vedere apparire il fantasma del capitano Achab e della Balena bianca. Alcune delle migliori pagine di Pavese sono indistinguibili dal rumore del Po. La Torino dei sabbiatori, delle società di canottaggio, degli innamoramenti sulla prua di una barca. Così, la «Suora giovane» di Giovanni Arpino matura la sua mite e caparbia ribellione contro la servitù femminile, la falsa religiosità, i pregiudizi sociali nel fiato delle nebbie che salgono dal Po. Sono le tracce, le stigmate, di una Padania che, per essere profonda e originaria, non può che mostrarsi aperta e condivisa: come è destino del fiume che, dopo essersi arricchito delle acque più lontane, si perde con un largo abbraccio nel mare. Lorenzo Mondo In questi secoli, molta storia patria è passata sotto questi ponti e Torino ha visto nascere la Nazione Le rive del fiume non sono mai state deserte fin dai tempi dei Taurini che contrastarono duramente Annibale per piegarsi poi ai costumi e alla forza di Roma Anche i Savoia si sono lasciati sedurre dalla potenza di queste acque ed hanno impiantato proprio qui laioro capitale IL PLACIDO PO A sinistra: il Pian del Re, sotto il Monviso, dove nasce il Po. A destra: veduta aerea del fiume che segna e attraversa il cuore di Torino Guido Gozzano (a sin) e Cesare Pavese due scrittori che hanno amato il Po

Persone citate: Cesare Pavese, Giovanni Arpino, Guido Gozzano, Lorenzo Mondo, Pavese, Savoia, Verrua