la pace inesorabile

Saltate le promesse elettorali di «Bibi» LA FORZA la pace inesorabile Neppure il Likud la può fermare LA FORZA DELLA STORIA TEL AVIV ON un sorriso, ma nemmeno un'espressione di soddisfazione da parte di Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat: Netanyahu si è alzato per primo, al di là del tavolo addobbato di fiori e di frutta, coperto da una tovaglia celeste, e ha teso ad Arafat la mano. Arafat si è levato dal suo posto lentamente e poi la stretta di mano è durata quel tanto che potesse consentire ai cameramen e ai fotografi di svolgere il loro lavoro, non un istante di più. I notabili israeliani e palestinesi, seduti a fianco dei loro capi, non hanno mosso un muscolo del volto: neppure i tessitori dell'accordo, neppure Dorè Gold, il cervello di Netanyahu per le questioni palestinesi, neppure Saheb Erahat, uno dei tessitori della corsa convulsa verso questo incontro, giorno e notte nell'appartamento di Tel Aviv di Terje Larsen, il grande mediatore norvegese. Se c'era bisogno che la pace si mostrasse ancora una volta nuda nella sua essenzialità, come un assoluto astratto, ineluttabile, ecco che ieri questo miracolo è avvenuto. Antipatia personale, incomprensione politica, persino ferite non rimarginabili (nel '76 Yonathan, il fratello di Bibi, perse la vita a Entebbe per mano pa- lestinese), affermazioni e promesse fatte per catturare il favore del pubblico, niente ha potuto fermare questa difficile pace mediorientale. Tutti ricordano la prima stretta di mano fra Rabin e Arafat: già allora la postura del corpo di Rabin, l'espressione contratta e affaticata del suo viso esprimevano il dolore del parto di Oslo. Eppure, Rabin aveva maturato l'idea che la pace fosse necessaria per convinzioni ideologiche e politiche. Non così Netanyahu, che ha impostato tutta la sua campagna elettorale sulla pericolosità del processo di pace, sull'inaffidabilità dell'interlocutore da lui più volte definito «ex terrorista», sulla sacralità di Hebron, sulla fretta eccessiva di Rabin prima, e poi di Peres, e persino sull'aver usato intermediari stranieri. Ed ecco che questo incontro al check-point di Erez, sul limite di Gaza, avviene invece all'insegna di una fretta indiavolata, maggiore ancora di quella che Netanyahu aveva imputato a Peres, dovuta alla prossima partenza del primo ministro israeliano per gli Usa, verso un incontro con Clinton che esige da Israele un pegno elettorale; e dovuta anche alle pressanti informazioni dei servizi segreti sul pessimo umore dei Territori. Avviene sulla base di una ridiscussione della questione di Hebron che non cambierà di molto i termini originali dell'accordo, e della prossima apertura della West Bank e di Gaza, rimaste a lungo serrate met- tendo l'economia palestinese in ginocchio. Nello stesso tempo però questa chiusura era la garanzia di sicurezza che sta alla base della politica di Netanyahu, e a cui evidentemente il premier si appresta a rinunciare. Gli accordi di oggi avvengono persino sulla base indispensabile della mediazione dello stesso «straniero» Larsen che Peres e Rabin avevano usato come mallevadore per gli accordi di Oslo 1 e Oslo 2; ora Bibi lo chiama «zadik», ovvero «un santo». Arafat a sua volta con l'incontro di ieri è sceso dal podio su cui nei giorni scorsi aveva fatto mostra di terribile determinazione, promettendo l'Intifada, indicendo manifestazioni, usando parole di fuoco contro Netanyahu, definendolo «peggio di un nazista», come hanno riportato i giornali palestinesi. Si sa che ieri alle 4, un'ora prima dell'incontro, Arafat ha telefonato al suo interlocutore per scusarsi dell'incidente. Persino la metodologia degli incontri degli ultimi giorni ripete lo schema di Oslo, tanto disprezzato un tempo da tutto il Likud: una sequenza di interminabili ore in maniche di camicia in cui palestinesi e israeliani prendono accordi non scritti (anche questa una metodologia esecrata in campagna elettorale) e si parla però anche molto dei propri figli, delle proprie mogli, della vita personale, insomma si crea un rapporto. Mentre in queste ore una parte del Likud si batte il petto per aver visto il suo leader fare l'impensabile, stringere la mano al «terrorista Arafat», di fatto stanno cadendo in Israele un'altra barriera ideologica, un altro incubo dell'inconscio collettivo. Quando toccò a Rabin molti pensarono: «In definitiva, se lo fa lui...». Oggi tocca all'elettorato di Netanyahu attraversare lo stesso choc culturale che allora attraversò l'elettorato di sinistra. E intanto di nuovo il popolo palestinese sa che il suo Raiss è in sella, non è in crisi, ha saputo strappare di nuovo una promessa di pace e di prosperità al suo più potente vicino, e gli estremisti islamici sono costretti ad abbandonare il sogno di rovesciare l'antico capo, di una nuova Intifada. Netanyahu e Arafat hanno avuto coraggio. Ora, alla luce del sole, dopo tante ore spese nel «canale nero» come è stata chiamata la foresta d'incontri e di colloqui segreti di questi giorni, riprendono il cammino. Non per mano, come con Peres, ma certo fianco a fianco. Fiamma Nirenstein Saltate le promesse elettorali di «Bibi» L'ex premier laborista Peres battuto da Netanyahu vede il successore avviarsi sulla strada tracciata da lui e Rabin [foto reuterj