Tutte le imboscate fallite al Generale Rompiscatole di Domenico Quirico

Tutte le imboscate fallile al Generale Rompiscatole Tutte le imboscate fallile al Generale Rompiscatole I SEGRETE DEL NEGOZIATO U' MOSCA N giorno la chiameranno la pace degli scacchi. Perché tutto si è deciso tra un'apertura di pedone e una contromossa con l'alfiere. Lebed, il generale «usa e getta», nelle trame neppur tanto segrete dei suoi nemici doveva tornare a casa come un Cincinnato rancoroso e sconfitto dall'impossibile missione di sciogliere il rompicapo ceceno. Lui ha giocato e ha dato scacco matto. L'enfant terrible della politica russa torna al Cremlino con uno zaino appesantito da una leggenda, il capitale migliore per i generali che decidono dì gettarsi in politica. Tutti scommettevano che non sarebbe sopravvissuto al marasma caucasico; lui con le sue idee semplici tagliate nel granito di una coscienza di ferro, si è dimostrato un ambizioso, spregiudicato, moderno, geniale Catihna. La corsa al Cremlino di Lebed è cominciata in un villaggio perduto tra le montagne smaltate di verde, Starje Ataghj, trenta chilometri dagli orrori di Grozny: la tana del lupo, la capitale dei ribelli, territorio liberato, dove i carri armati russi non hanno mai osato avvicinarsi. Appena sceso dall'elicottero, il generale ha raggiunto senza esitazioni una villa sontuosa. Il proprietario, Rezvan, è uno che nei libri di storia certo non comparirà, appartiene alla razza che alle guerre è appiccicata come le alghe a una nave: affarista, sedicente «industriale», uno che non può permettersi il lusso di avere nemici. Lebed ha tirato fuori il monumentale bocchino che ormai è diventato famoso, come la voce che fa tremare i muri e il sorriso che fa vibrare il cuore delle russe, ha disposto gli scacchi su un raffinato tavolino rococò e ha, con napoleonica decisione, aperto con il pedone bianco. Non è certo un giocatore riflessivo, muove le pedine come fossero cannoni, aspetta la sua mossa con furia. E soprattutto quando gioca non si accorge di nulla. Così quando è entrato in sala Shirvani Bassaiev con il colbacco di astrakhan, l'aria da anacoreta della guerriglia e il mitra regolamentare, Lebed gli ha dedicato solo un grugnito. Il comandante ceceno, ancora per qualche giorno ufficialmente «bandito e terrorista», perplesso, si è seduto e ha cominciato a osservare la battaglia in corso sulla scacchiera. Stesso trattamento ha ricevuto poco dopo il «Garibaldi» ceceno, Maskhadov, costretto a uno spuntino per ingannare l'attesa. Lebed ha alzato gli occhi solo quando il padrone di casa, alla ricer- ca di una via di uscita, è riuscito a districarsi sotto le bordate dell'avversario e ha proposto un pareggio. Allora Lebed si è alzato, quattro ore dopo a Grozny non si sparava più. La storia della pace «made in Lebed» è piena di lacune, dove i fatti spariscono come in un abisso. Una cosa è sicura: i nemici più funesti del generale non erano tra le file dei ribelli, al) a ricerca di un interlocutore affidabile, ma tra coloro che porta- vano la sua stessa uniforme. E al Cremlino. Ma, dimostrando che è tutt'altro che un naif della politica, lui si è portato dietro giornalisti amici, che hanno puntualmente diffuso i capitoli dell'imboscata fallita. Il grande bluff è iniziato fin dalla prima ispezione in Cecenia. Lebed è sbarcato nella base di Khankala, dove i soldati russi si logoravano e si sfibravano tra ordini contraddittori, confusione e corruzione. Si è precipi- tato, a passo di corsa, verso gli alloggiamenti, ispezionando camerate, sollevando materassi, frugando nelle cucine, alla ricerca delle prove della grande truffa ai danni dei soldati. Ma tutto era stato lucidato alla perfezione, sparite le tracce di sporcizia e abbandono. Per non correre rischi, anzi, i comandanti avevano assegnato al fastidioso generale un ufficiale che con un radiotelefono preavvertiva del percorso, in modo da cancellare ogni nota stonata. Perfino lo spaccio, normalmente vuoto, era stato riempito all'inverosimile di prelibatezze, birra e sigarette. Lo spirito con cui i generali russi hanno affrontato la guerra è tutto nel colloquio tra Lebed e Tikhomirov, il comandante supremo tornato per il gran finale dopo un curioso periodo di «ferie» di classico stampo eltsiniano. «Generale replicava Tikhomirov a Lebed che gli parlava della necessità di imbastire una tregua - radiamo al suolo la città e poi ce ne andiamo, così il nostro onore sarà salvo». Alle proteste di Lebed che ricordava il trascurabile particolare della presenza in città di 150 mila civili, Tikhomirov ha replicato: «Chi se ne frega! Quando nel '45 conquistammo Berlino abbiamo bombardato alzo zero e non ci siamo certo preoccupati dei civili». «E i mille soldati russi imbottigliati in città? Che fine faranno?». «Che ci possiamo fare? Pazienza». Non c'è da sorprenderei che quando Lebed e i ceceni facevano un passo avanti nelle trattative, puntuale scattava un maligno attacco delle truppe russe. Fino a quando il generale, spazientito, ha mandato un bigliettino: «Tikhomirov, se si sparerà ancora una volta, lei è licenziato». Domenico Quirico

Luoghi citati: Berlino, Cecenia, Grozny, Mosca