Russia '96, era del baratto

Russia '%, era del baratto Russia '%, era del baratto A Ivanovo, ex mecca dell'industria L'ALTRA FACCIA DEL MERCATO IVANOVO INA il problema del fidanzato lo ha felicemente risolto, visto che spinge una monumentale carrozzella. Ma, per carità, non chiedetele se è contenta: «Da sei mesi non vedo un soldo di salario, nel periodo in cui aspettavo il bambino non mi hanno pagato una lira di indennità. Per risparmiare, mangiavamo pane e latte, poi siamo passati ai frutti raccolti in campagna, adesso siamo alle minestrine di ortiche. Qui ci hanno abbandonato tutti, a Mosca ingrassano con i nostri soldi e noi facciamo la fame». E pensare che Ivanovo, negli ormai fiabeschi anni dell'Urss, era nota per due motivi. Perché aveva fatto da balia al primo soviet; e soprattutto perché la chiamavano la città delle fidanzate. A causa dei giganteschi complessi tessili le donne erano in stragrande maggioranza e hi perenne ricerca di un buon partito. Il governo comunista, sollecito, decise di correggere questa deviazione borghese costruendo maschilissime fabbriche dell'industria pesante. Fallimento completo: anche oggi a Ivanovo le donne sono in vantaggio. E per di più la città è il cuore della depressione russa, la vetrina di un passaggio al mercato che si trascina al passo, come un bue: la curva del calo della produzione sembra la cardiografia di un collasso, nessuna delle decine di fabbriche funziona, si è ritornati al baratto e all'economia naturale. Mosca è a 300 km e qui non c'è traccia dei telefonini, delle calcolatrici tascabili che tutti si portano dietro per fare i conti del business. E' l'altra Russia, immensa e dimenticata, dove parlare di mercato e di capitali equivale a evocare forze misteriose e dove ti accorgi che la formula con cui è stata condotta la privatizzazone ha ampiamente giustificato la formula di Proudhon: la proprietà è un furto. Nel caos russo c'è tanta dinamite da far esplodere una sconvolgente rivoluzione (miseria diffusa, disoccupazione a strati, rabbia degli intellettuali, la ricchezza ostentata e scandalosa di pochi, corruzione, una guerra, in Cecenia, perduta e umiliante). Ti aspetti un Paese in ebollizione. Non lo trovi, nessuno accende la miccia. Perché? La risposta, forse, è nei miracoli dell'antieconomia russa, nelle sue regole paradossali e sconcertanti. Perché se i commessi viaggiatori del Fondo Monetario, che a Mosca discutono soddisfatti con i Rasputin della riforma economica, accettassero la fatica di venire qui, a Ivanovo, rischierebbero l'infarto. La fabbrica tessile «Kamvolnyj» sono dodici ettari di desolazione. I telai sono fermi da mesi, nei reparti si accumulano le ragnatele. La filosofia aziendale la racconta Nadezhda Kiveliova che dirige il direttivo sindacale, naturalmente tutto femminile: «Nessuno comprava i nostri tessuti, ma continuavamo a lavorare a pieno regime. Qui si dice per il magazzino. Gli eccessi di produzione crescevano ma così non c'erano disoccupati. Alla line la situazione è diventata insostenibile: i clienti erano più poveri di noi e non potevano pagare. Abbiamo accumulato un debito astronomico, 48 miliardi di nabli, per le fornitutre di energia elettrica, acqua calda, per le tasse e interessi sui crediti. Adesso non lavora più nessuno». Sulla porta dell'azienda una bella targa lucida: questa è una società per azioni. Nadezhda, come tutte le sue compagne di lavoro, infatti è un azionista: «Sono propietaria di quattro azioni, cinquemila rubli l'una, meno di quattro dollari. Dividendi, mai visti. Non valgono neppure la carta su cui sono stampate. Con i tempi nuovi abbiamo eletto tutti i dirigenti della fabbrica, solo che l'unica risposta che sanno dare è: non ci sono soldi, ripassate un'altra volta». Hanno davvero ragione quelli che sostengono che il pensiero economico poggia su basi metafisiche. Il salario è stato trasformato in pez- ze di stoffa che giacciono nei magazzini, la gente si arrangia costruendo un complicatissmo mercato parallelo, basato sul baratto: «Diamo i nostri tessuti in cambio di prodotti alimentari o li portiamo a Mosca per scambiarli con altri beni», racconta un'altra fidanzata delusa. Ma la risorsa risolutiva è sempre quella dei beati tempi di Kruscev e di Breznev, la dacia con l'orticello privato. Al Melanzhevyi Kombinat raccontano un'altra storia: «Un anno fa il governo russo si è accordato con gli uzbeki per comperare alcune decine di migliaia di tonnellate di cotone per le fabbriche di Ivanovo. Qui non è mai arrivato. Qualcuno lo ha venduto in Occidente e si è messo in tasca i soldi». Sulla piazza principale, l'ufficio per la registrazione delle nuove attività imprenditoriali sembra un deserto. Al collocamento, invece, sono arrivati da poco i computer, dei soldi però nessuna traccia. «Si fa registrare solo una piccola parte di disoccupati - spiega un gogoliano capufficio -, è solo una perdita di tempo, visto che soldi per i sussidi non ce ne sono». In fila ti aspetteresti umori furenti. E invece: «Scioperi, cortei? Ma certo che li abbiamo fatti. Ma tutta roba regolare, con tanto di autorizzazione delle autorità, diamine. Non si è sentito neppure un grido ostile contro il governo». Scusi, qui chi ha vinto le elezioni presidenziali: «Ma che domande! Eltsin naturalmente». Domenico Quirico La chiamavano la «città delle fidanzate» perché i giganteschi complessi tessili davano lavoro soprattutto alle donne Le aziende sono chiuse nessuno percepisce il salario: si scambiano pezze di tessuto con prodotti alimentari TffT- Donne operaie di Ivanovo, la città a 300 chilometri da Mosca sede di giganteschi complessi tessili da tempo paralizzati

Persone citate: Breznev, Del Mercato, Domenico Quirico, Eltsin, Kruscev

Luoghi citati: Cecenia, Ivanovo, Mosca, Russia, Urss