I peccati dei criminali redenti di Francesco La Licata

i I peccati dei criminali redenti Da Contorno a Buscetta, catena di bravate LE REGOLE IL pentito con licenza di uccidere, il pentito col telefonino, quello che va in crociera, l'altro che «arrotonda» con le rapine. Fa titoio il pentito: sia quando «pecca», sia quando subisce violenza. Ma fa notizia di più quando viola la legge. Una sorta di riflesso condizionato porta l'opinione pubblica a reazioni di sdegno più accentuate del solito. Un po' perché l'idea che ci si fa del collaboratore di giustizia è quella del criminale redento, un po' perché siamo abituati a pensare al pentito come ad un soggetto controllato notte e giorno, isolato, circondato da un muro di agenti che non lo lasciano un momento. Ma la realtà è molto diversa. Quando l'ex criminale viene ammesso al programma di protezione accade una cosa semplice che - tuttavia - è la palese contraddizione che «colpisce» l'esterno. E cioè: il mafioso fino a ieri indicato come il potentissimo detentore del male, autore di reati spesso ignominiosi, ricercato per terra e per mare, una volta arrestato, ridiventa libero in pochissimo tempo. Ma perché indignarsi, se i termini del «contratto» previsto dalle norme sono perfettamente rispettati? Il pentito non può stare in un carcere normale e il motivo è facilmente immaginabile. La detenzione in strutture extracarcerarie è prevista ma non supera il ragionevole spazio temporale necessario perché venga messo a verbale tutto il bagaglio di conoscenze descritto dal collaboratore. E non è esatto immaginare il Servizio di protezione come un organismo preposto al «controllo» del pentito. No, il servizio di protezione ha il compito di provvedere alla sicurezza del collaboratore e quindi di individuare il «sito adatto» dove sistemarlo, che è quello che offre le maggiori garanzie dal punto di vista della sicurezza. In sostanza il Servizio cerca la casa, la «sperimenta», se va bene vi sistema il col- laboratore. Ma non lo sorveglia notte e giorno, anche per non dare nell'occhio: non c'è anonimato migliore di un uomo che abita da solo in un grande condominio, senza la presenza di scorta né in divisa né in borghese. Il pentito, dunque, fa una vita normale. Tranne quando deve testimoniare e quindi è «individuabile», motivo per cui viene preso in custodia ed accompagnato negli spostamenti. Ha pure qualche obbligo: per esempio quello di non allontanarsi dal luogo dove abita, se non per motivi gravissimi e dopo aver avvertito l'agente che è stato incaricato di «seguirlo per tutte le esigenze». Non è compito del Servizio di protezione, impedire i colpi di testa di personaggi che, da mafiosi, non sono mai stati mammolette e che l'isolamento e la perdita dello status di boss ha reso particolarmente irrequieti. E' forse questo il motivo per cui le «bravate» dei pentiti si scoprono sempre quando è troppo tardi. In sostanza, non si possono prevenire per assoluta impossibilità di controlli efficienti. D'altra parte, è vero che esiste anche l'altra faccia della medaglia e cioè l'impossibilità di offrire loro una protezione giornaliera e continua, tant'è che spesso i pentiti si sono trovati esposti alle vendette e ai rischi, senza difesa, soli con il loro improbabile anonimato. Che turbolenti, qualche volta, gli ex mafiosi: Salvatore Contorno, armato, arrestato a Bagheria mentre tutti lo credevano in Usa, Santino Di Matteo che «scappa» addirittura dal nascondiglio «privilegiato» (stava in una stanza negli uffici della Dia, a Roma) mentre il figlioletto era prigioniero di Giovanni Brusca. Tutti temevano che il pentito fosse andato per farsi giustizia privata, ma la smentita arrivò dallo stesso Di Matteo che si ripresentò spontaneamente. Per non parlare dei pentiti «riacciuffati» nel pieno di balli sfrenati in discoteca o sulla porta di una gioielleria, ancora col bottino fra le mani, come capitò a Concetto Cassia, siracusano, arrestato a Pontedera. Poi si scoprì che an- che Alceo Bertolucci, pentito della mafia del Brenta, rapinava ed uccideva. Tra i «peccati veniali», la crociera di don Masino, sbattuta su tutte le prime pagine. Eppure già allora Buscetta era un uomo libero, nel senso che aveva persino scontato la pena inflittagli per le colpe confessate. Certo, c'era un problema di opportunità e di pericolo per l'incolumità sua, della moglie e del giovane figlio. Ma non per questo si scandalizzarono i benpensanti, che paragonarono il viaggio dell'ex boss a quelli che faceva Onassis. Un po' più gravi gli episodi legati a piccole truffe e in generale a reati compiuti per procacciarsi soldi: assegni a vuoto, debiti non pagati, falsificazione di carte di credito. Qualche volta il pentito può finire nei guai per cose, più serie, com'è accaduto a Piergiorgio Pantano, catanese della banda dei Cursoti, accusato - ingiustamente secondo lui - di molestie ai bambini. Sono 23 i programmi di protezione revocati per comportamenti scorretti dei pentiti. Tra i provvedimenti, anche qualche sanzione motivata semplicemente dalla mancata osservanza delle regole accettate al momento della stipula del «contratto» con lo Stato. Basta allontanarsi senza avvertire, o rilasciare una intervista non autorizzata, per incappare nei rigori della Commissione ministeriale. A parte la giusta preoccupazione per i timori che il pentimento possa trasformarsi in una comoda protezione per il collaboratore, in effetti, rimasto il criminale di prima, non si può parlare di un fenomeno di grandi dimensioni. I collaboranti sono quasi 1300, coi familiari arrivano a 6000. Le revoche non arrivano a trenta. «Data la provenienza dei nostri clienti - dicono al Servizio di protezione - forse c'è andata molto bene, no?». Francesco La Licata Tre pentiti nel mirino Accanto: Totuccio Contorno, a sinistra Felice Maniero. Al centro: il boss Giuseppe Ferone

Luoghi citati: Bagheria, Pontedera, Roma, Usa