E Churchill ordinò «Salvate Bormann» di Fabio Galvano

il caso. Un raid a Berlino con Ian Fleming: lancio mondiale per il libro dell'ultimo protagonista il caso. Un raid a Berlino con Ian Fleming: lancio mondiale per il libro dell'ultimo protagonista E Churchill ordinò «Salvate Bormann» LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Riecco Martin Bormann. Non quello che morì nel rogo di Berlino, alla fine della guerra. Neppure quello che finì i suoi giorni in Sud America. Questo è il Bormann che per volere di Churchill, Roosevelt e re Giorgio VI fu salvato dai servizi segreti britannici e riciclato a nuova vita in un villaggio inglese, dove ebbe anche una figlia. Crederci? Non crederci? Se lo domanda anche l'autore di questa romanzesca memoria, John Ainsworth-Davis, che narra la vicenda sotto lo pseudonimo di Christopher Creighton: l'uomo - oggi ha 72 anni - che avrebbe guidato, quando aveva appena 22 anni, il raid su Berlino per portare Bormann in salvo. «I lettori - dice nella prefazione al libro - possono accettarla o rifiutarla a loro piacimento. Per quanto mi riguarda sono soltanto interessato, come Aristotele, alla verità e non all'opinione della gente». «Salvate Bormann» esce oggi in Italia (Rizzoli); e solo lunedì farà la sua comparsa l'originale inglese, per il quale l'editore Simon &• Schuster ha sborsato un anticipo di mezzo milione di sterline (quasi un miliardo e 200 milioni). Il titolo inglese è ermetico, ma rivela un'altra «chicca»: Op.J.B. Sta per «Operation James Bond»; e così infatti, afferma Creighton, l'operazione fu chiamata da Ian Fleming, che vi prese parte quando lavorava per i servizi segreti e già aveva in mente il mitico personaggio dei suoi futuri romanzi. Creighton cita lettere dello stesso Fleming, ma anche di Lord Mountbatten e addirittura di Churchill, a sostegno della sua incredibile storia. Non basta, però, a dissuadere Charles Whiting: specialista di storia militare e autore di un libro in cui la tesi di Creighton è seccamente confutata. «Bormann - afferma Whiting morì nella Berlino in fiamme». La tesi del nuovo libro, destinato a diventare best-seller internazionale nelle prossime settimane, è che Londra volesse salvare Bormann non per carità cristiana ma per bieco interesse. Era lui, infatti, il tenutario di tutti i segreti finanziari del Reich, a gestire i conti svizzeri, a conoscerne i codici, a poter insomma disporre del «tesoro» di Hitler. L'Inghilterra sarebbe riuscita nel suo intento; e non a caso, con una mossa che sembrerebbe attribuire credibilità al libro, il ministro degli Esteri Malcolm Rifkind ha fatto aprire un'indagine. Eppure resta sempre ostica l'immagine di un Bormann con il volto rifatto dalla chirurgia plastica, tranquillo nella sua casetta fra il Berkshire e lo Hampshire, nella nuova identità di zio tedesco di una donna del luogo, con un'amante che gli diede una figlia, vissuto serenamente fino al 1989 (se era davvero Bormann, morì a 89 anni). Bastano le «prove fotografiche» offerte da Creighton? C'è anche una lettera di Churchill, che lui conosceva indirettamente perché il grande statista era stato amico di sua madre e paziente di suo padre dentista (che prima della guerra aveva anche curato Von Ribben- trop). «Quando morirò - afferma lo scritto - se la coscienza ve lo permetterà raccontate pure questa storia: avete dato e sofferto molto per l'Inghilterra. Non cercate di proteggermi perché io sono soddisfatto di essere giudicato dalla storia. Ma cercate, ve ne prego, di proteggere coloro che hanno fatto onestamente il loro dovere nella speranza di un mondo futuro con libertà e giustizia». Se Creighton racconta solo ora la vicenda è proprio per avere voluto proteggere i superstiti di quell'avventura in cui 14 persone morirono per portare Bormann attraverso canali e fiumi della Germania settentrionale: oggi, dopo mezzo secolo, sono ancora 33. Fra di loro c'è una donna - nome in codice Susan Kemp - che fu tra le protagoniste e che Creighton ha sbandierato come teste fondamentale. Ma i dubbi restano; e resteranno probabilmente anche mercoledì, quando l'autore tornerà a Berlino per la presentazione ufficiale del libro, sfilando sull'Esplanade e sulla Burgestrasse, poi in crociera sulla Sprea lungo il percorso seguito nel 1945. Più che dubbi sono invece certezze quelle con cui Charles Whiting stronca il «salvatore» di Bormann nel suo libro La caccia a Martin Bormann - La verità, edito dalla Pen and Sword Books. «Sono tutte panzane», sostiene irritato: «Nel 1975 io intervistai a Berlino Gunther Keyser, un postino in pensione. Costui sapeva che Bormann era morto perché, con un amico, l'aveva sepolto. Mi raccontò nei particolari come Bormann e altri pezzi grossi si erano nascosti nelle stazioni della metropolitana, terrorizzati dall'ipotesi di essere catturati e torturati dai russi. Bormann sperava che una stazione in particolare, quella della Lehrerstrasse, fosse fuori dalla morsa sovietica. Ma quando alla fine si arrischiò a uscire si trovò nel mezzo di un fuoco incrociato e rimase ucciso». Anche i parenti di Bormann - il fratello, il cognato, persino l'amante Elsa Kruger - glie l'hanno confermato: il braccio destro di Hitler morì a Berlino. Creighton alza le spalle: «Lo dice lui». Fabio Galvano Il gerarca nazista sarebbe poi vissuto in Inghilterra sotto falso nome. Ma fra gli storici è polemica Qui a fianco, Ian Fleming, il «padre» di 007; al centro Martin Bormann con Hitler; in basso, insieme con Goering