Così Carli riuscì a piegare i tedeschi di Marco Zatterin

Così Carli riuscì a piegare i tedeschi Così Carli riuscì a piegare i tedeschi Nel '91 il ministro «ammorbidì» ipartner LA SCELTA DELLA FLESSIBILITÀ' CON un cenno della mano destra e un sorriso sereno, Guido Carli invitò i giornalisti ad accomodarsi nella piccola hall dell'albergo, un edificio basso, per nulla accogliente. Voleva parlare, il ministro del Tesoro, e raccontare il successo ottenuto nell'incontro informale dei ministri finanziari di quella che ancora si chiamava solo Cee. Niente da fare. Piantato in mezzo all'ingresso, con l'aria di chi è pronto a venire alle mani, un poliziòtto sbarrava la strada ai cronisti. «Non si può entrare - ringhiò in un inglese fluente - niente dichiarazioni prima della fine della conferenza stampa della presidenza olandese». Qualcuno gridò all'ex governatore qualcosa del tipo: «Non ci fanno passare». Carli, che pure non ci sentiva benissimo, colse al volo il messaggio. Con tutta calma si alzò, sfiorò la guardia, e disse: «Vengo fuori io». Cinque minuti più tardi, fra i tavoli sparpagliati davanti al grigio albergo di Apeldoorn, feudo degli Orange nel cuore dei Paesi Bassi, il ministro, insieme con il suo diret- tore Mario Draghi, e il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi, cominciava un improvvisato incontro stampa, violando ogni protocollo. Tutto per far sapere che, dopo una lunga trattativa, i tedeschi avevano finalmente ammesso (per bocca di Theo Waigel) che i criteri di convergenza economica da inserire nel Trattato di Maastricht «non dovevano essere applicati in modo meccanico» e che «bisognava lasciare spazio di manovra per una valutazione politica». Un trionfo. Per Carli e per l'Italia. Era il 21 settembre 1991, un bel sabato di sole. L'Ecofin informale si era ritrovato all'ordine del giorno il pacchetto dei parametri da inserire nel Trattato per l'Unione monetaria che sarebbe stato approvato a Maastricht meno di tre mesi dopo. Ma il problema non erano tanto i numeri, quanto il modo in cui leggerli, quindi la composizione dello scontro fra la linea della rigidità assoluta proposta da Bonn e quella d'un approccio più morbido, basato sulla tendenza, caldeggiato dall'Italia. Il Consiglio andò come avevano sperato i Nostri. Il motivo era semplice: la delegazione italiana, aiutata da quella francese e fiancheggiata dai britannici, era riuscita ad emendare il documento di lavoro scritto dai tecnici del Comitato monetario. In quella giornata di Apeldoorn, non erano soltanto decollati i tanto discussi criteri di convergenza (debito, deficit, inflazione e tassi), ma anche il principio che nel giudicarli si sarebbe tenuto conto delle performance dell'economia. «Si sono confrontate - raccontò Carli - due impostazioni, una ancorata rigidamente ai parametri di convergenza, l'altra che tiene conto dell'evoluzione delle politiche dei diversi Paesi». Quel giorno si impose la seconda tesi e Waigel confessò di aver accettato la «politicizzazione» del procedimento, anche se il nostro nunistro del Tesoro, forse preoccupato di non dare ai futuri governi una scusa di lassismo, giurò il 7 ottobre a Lussemburgo di essere contrario alla «politicizzazione» e ribadì l'esigenza di risanamento, perché «dei cambi fissi ùrevocabili ed un politica monetaria unica non sarebbero sopravvissuti con livelli di inflazione divergenti». Il Trattatto di Maastricht, varato il 10 dicembre '91, conferma le promesse di Carli ad Apeldoorn. Nel testo i Dodici hanno inserito i loro severi parametri, ma si sono premuniti di flessibilizzarli in qualche misura, e - con le lettere a e b, della seconda parte dell'articolo 104c hanno versato una discreta dose di emolliente: il deficit deve essere minore o uguale al 3% del Pil, «a meno che il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo, e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento»; il debito non deve superare il 60% del Pil «a meno che detto rapporto si stia riducendo in misura sufficiente e si avvicini al valore di riferimento con un ritmo adeguato». Grazie a questi riferimenti, il piano di convergenza dell'Irlanda (in regola col deficit, ma col debito all'82% del Pil) è stato promosso dall'Unione, perché la tendenza è positiva e Dublino si sta risanando da sola (il debito era al 116% del Pil nell'87). In altre parole, è stato riconosciuto che la sua partecipazione alla moneta unica non dovrebbe costituire un elemento di instabilità per i partner. L'auspicio di Carli era quello di aprire la strada per la promozione di un'Italia più virtuosa, nella speranza che negli otto anni che sarebbero seguiti a Maastricht, qualcuno sarebbe finalmente riuscito ad imbrigliare i conti pubblici. Il tocco di flessibilità del Trattato lasciato in eredità dallo scomparso ministro corrisponde all'unica chance per Roma di salire sul treno dell'Unione monetaria in corsa. E' la carta da giocare sul tavolo europeo per ottenere il premio del sudato rigore. Se conviene o meno, non è il Trattato che lo deve dire. Marco Zatterin L'ex ministro del Tesoro Guido Carli

Luoghi citati: Apeldoorn, Bonn, Dublino, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Roma