I DUE ISRAELE di Fiamma Nirenstein

I DUE ISRAELE I DUE ISRAELE Un Paese che vuol essere «normale» : il conflitto fra tradizione e modernità EGGENDO tutto di un fiato l'appassionante riflessione di Fiamma Nirenstein sull'Israele di oggi, reportage giornalistico denso di riferimenti autobiografici utili per comprendere il passato e il vissuto di quella realtà, viene, anche a noi, spontaneo porci l'interrogativo che implicitamente la percorre. Proviamo a metterci nei panni dell'autrice, italianissima ebrea fiorentina con ascendenze polacche, un'intellettuale che la sua aliah in Israele quattro anni fa non l'ha certo concepita sotto la spinta del bisogno, come la più parte degli ebrei russi o yemeniti, bensì come tappa di un tragitto di ricerca intorno all'identità sua e della sua famiglia. Mettersi nei suoi panni a me non riesce poi troppo difficile: anch'io come l'autrice visitai per la prima volta Israele nel 1967, da ragazzino, nelle settimane immediatamente successive alla vittoriosa guerra dei sei giorni, assimilandone indelebilmente l'immagine eroica militar-pionieristica. Per poi, come lei, sottoporla a critica militante man mano che la questione palestinese s'imponeva sulla scena mediorientale; e ancora interrogarsi sul controverso rapporto tra diaspora e baricentro dell'ebraismo; coltivare laicamente la memoria e riflettere sul futuro della propria identità. La domanda che sembra correre sottotraccia al libro è dunque questa: ma vale davvero la pena per un'intellettuale europea fare la scelta di vita deW'aliàh in Israele nell'epoca del post-sionismo, quando cioè Israele dismette la sua dimensione eroica, si avvicina a divenire un Paese normale (ciò che del resto la stessa autrice auspicava), e perfino la tanto amata ruvidezza israeliana degenera in consumismo grossolano? «Non sei più pronto ad accettare tanta huzpà, tanta sfacciataggine, da im mondo che si sta comprando l'ultimo modello di cabriolet americana, e se ne vanta» (pag. 20). Una normalizzazione all'insegna dei telefonini e dei comitati di madri che ficcano il naso dentro l'esercito viene descritta dalla Nirenstein, in forte contrasto con l'Israele ortodossa e integralista che fatica a condividere tale processo: fino a generare dal suo seno Ygal Amir, l'assassino di Rabin. A un certo punto della lettura sembra quasi che sia la stessa intellettuale laica e pacifista, ovviamente favorevole all'accordo Rabin-Peres-Arafat, a chiedersi se non vi sia una perdita insopportabile nel divenire Israele un Paese nonnaie. Fa appena in tempo a rispondersi di no - perché proprio dentro a quella laica normalità va ricercata la nuova identità ebraica - quand'ecco in sequenza viene ammazzato Rabin, Hamas dissennila di morti la campagna elettorale, e infine vince Netanyahu. E allora si esaspera anche nel racconto della Nirenstein quel conflitto tra antico I due volti d'Israele, l'antico e il moderno: a destra il patriarca Ben Gurion; qui sotto il fotomodello Raz Degan ■ L antico integralismo si misura con la tentazione consumistica: ieri il volto simbolo era Ben Gurion, ora il più noto è il fotomodello Raz Degan e moderno che contraddistingue la vicenda israeliana, senza neppure che l'integralismo e l'attacco alla laicità dello Stato possano venir liquidati come fenomeni appartenenti al passato. Se la vittoria elettorale di Netanyahu è giunta per certi versi inaspettata, rispetto al medesimo impianto del Libro, Nirenstein non commette né l'errore di drammatizzarne la portata, né quello opposto di leggervi un destino benefico di irriducibilità ebraica alla normalità. E' avvincente il racconto di questo conflitto tra eccezionalità e normalità che si manifesta in ogni momento della comune convivenza: dai consumi alimentari all'elaborazione del lutto, fino al dibattito storico sull'Olocausto. La presenza palestinese che ha cominciato a farsi sentire in maniera determinante quando l'Intifada l'ha fatta irrompere dentro ogni famiglia israeliana, pone a sua volta interrogativi cruciali. Straordinari i media che sono stati capaci (pag. 41) di rimettere un anno dopo l'uno di fronte all'altro un soldato di Tsa- hal e il ragazzo lanciatore di pietre cui il primo si era rifiutato di sparare. Il palestinese sfotte il soldato che l'ha risparmiato: «La verità è che voi ormai piangete non solo la vostra morte, ma perfino la nostra. Il massimo della viltà». Dentro quel conflitto sanguinoso, ricorda la Nirenstein, non vi è però mai chiusura assoluta. «Non ci sono stati desaparecidos, qui». Il palestinese sa che accanto all'israeliano carceriere troverà anche un avvocato o un pacifista che lo difendono, credendoci. Poiché l'attenzione del libro è inevitabilmente rivolta soprattutto alle spaccature interne alla comunità ebraica, il rapporto con i vicini viene liquidato più in fretta: abbiamo capito che ci si può anche alleare con un dittatore come Arafat pur di combattere il terrorismo islamico, sostiene di getto l'autrice. Ma «quegli Ahmed con la cintura di dinamite che passeggiano nei dintorni di Gerusalemme», viene da replicarle, non è credibile che possano essere fermati solo attraverso la repressione di un dittatore. Troppo potente e complesso è il fenomeno di crescita del fondamentalismo, che qui viene descritto soprattutto nella sua componente ebraica. Strano destino davvero quello di un Paese che vede dirottate le sue scelte decisive dai colpi di pistola di un qualsiasi studente yemenita come Ygal Amir. E questo proprio quando all'estero si è cominciato ad abituarsi alla normalità della sua esistenza: in Italia, perfino tra la gente comune, l'israeliano-tipo non viene immaginato più come un soldato, un rabbino, imo scienziato, uno scrittore. Si rivolterebbe nella tomba, probabilmente, Ben Gurion, se sapesse che nel 1996 l'israeliano più conosciuto e apprezzato qui da noi si chiama Raz Degan, principe dei fotomodelli. Ma forse è proprio questo il Paese in cui per una come Fiamma Nirenstein vale la pena di vivere: un'Israele normale a modo suo, in cui la memoria di Ben Gurion può convivere con il presente di Raz Degan, contrastando generosamente una pulsione suicida che vibra nelle sue viscere. Gad Lerner PER CAPIRE HEIDEGGER PARLA CON WINNIE PUH WINNIE PUH E LA FILOSOFIA Da Platone a Popper John T. Williams Cuanda pp. 174 L. 22.000 WINNIE PUH E LA FILOSOFIA Da Platone a Popper John T. Williams Cuanda pp. 174 L. 22.000 abbastanza noto il fatto che in valori come il facile e il difficile, o l'ovvio e il sorprendente, non esiste una progressività lineare - per cui il facile diventa molto facile, e poi facilissimo, e così via, e l'ovvio diventa supremamente ovvio e poi stupidissimo - ma un ritorno circolare, per cui il troppo facile può diventare astruso, e al contrario si verifica che l'enormemente difficile e sottile coincide con la più disarmante semplicità. Tenendo conto di questo fenomeno (che Platone e Aristotele chiamavano la «generazione dai contrari»), si sarà in grado di capire i pregi e i limiti dell'operazione compiuta da John Tyerman Williams, che con Winnie Puh e la filosofia ha tentato una deduzione dell'intera storia del pensiero occidentale dalle pagine di una nota serie di libri per bambini. Due considerazioni occorre fare. La prima è la questione della servetta tracia, questione sulla quale il defunto Blumenberg ha scritto un libro (La caduta del protofilosofo, 1983). La servetta tracia rise quando Talete distratto, contemplando il cielo, cadde in un pozzo. Si sa che tale riso è un'istanza metaforica, è la risata sonora del sensus communis di fronte alla goffaggine della filosofia. La servetta tracia inaugurò una lunga e vivace linea di pensiero, che attraverso Aristofane giunge alla scuola scozzese del senso comune quindi a Moore, e percorre pagine di Wittgenstein, Ryle, Rosenzweig e Derrida. La seconda considerazione è che la filosofia è una disciplina di natura elementare e complessa. E' elementare perché si comincia subito a fare filosofia: il «fuoco» filosofico «si accende all'improvviso nell'anima», disse Platone, non c'è preparazione che lo anticipi né metodo che lo garantisca. E' complessa perché è (continua ad essere, nonostante tutto) una disciplina «onniabbracciante», che può includere anche la cibernetica, ultima spiaggia della razionalizzazione. Esiste negli Stati Uniti un «Istitu • to per la filosofia infantile» (Institu- te for the Advancement of Philosophy for Children); è noto che Piaget, il grande epistemologo, imparò forse più dai suoi studi di psicologia dell'età evolutiva e dall'analisi del Linguaggio infantile che dalle indagini di logica e biologia. Insomma, è abbastanza plausibile che la filosofia possa essere esercitata e insegnata con profitto a livelli elementari. Non si può non ricordare d'altra parte che le premesse del lavoro di Williams sono i due libri delle storie di Alice, di L. Cairoli. Allora l'operazione di Williams sarebbe in qualche modo significativa se avesse come scopo il mostrare: a) che esistono davvero implicazioni filosofiche nel linguaggio e nel mondo di Winnie Puh, come in quelli di Alice; b) che la filosofia è riducibile all'ovvio, e la sua astrusità è infinitamente banale e pertanto ridicola. Nel primo caso avrebbe preso partito per i teorici della filosofia elementare, nel secondo per la servetta tracia e i suoi continuatori. Ma l'operazione di Williams non ha questi obiettivi. Sembra piuttosto una variante leggera di quella consuetudine, molto in voga negli Anni Settanta, che consisteva nel mescolare cultura alta e bassa, incultura e controcul- Heidegger tura in un gioco inarrestabile di corrispondenze ed analogie. E' evidente che Williams propone un divertissement anti-erudito e goliardico; ma non sempre il risultato è davvero divertente: soprattutto nella prima parte, quando in modo piuttosto vago e noioso l'autore dimostra che il pensiero di Winnie Puh riproduce temi e soluzioni degli antichi cosmologi, di Socrate, Platone, Aristotele. Migliori sono le pagine in cui si argomenta che invece tutta l'opera di Heidegger e Sartre non è che un commentario alle gesta dell'Orso di Pochissimo Cervello: come non riconoscere la tematica heideggeriana della «semplice presenza» nell'espressione dell'Orso «hai lì», quando egli chiede: «Mi domandavo se per caso hai lì un palloncino»? UOMO DEBOLE PENSIERO FORTE Il Beccaria di Renzo Zorzi CESARE BECCARIA IL DRAMMA DELLA GIUSTIZIA Renzo Zorzi Mondadori pp. 419 L. 39.000 CESARE BECCARIA IL DRAMMA DELLA GIUSTIZIA Renzo Zorzi Mondadori pp. 419 L. 39.000 UE piccoli libri - il Traité sur la tolérance di Voltaire e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria - apparsi a distanza rawicinatissima (dicembre 1763, gennaio 1764), non si limitano ad arricchire di nuovi spartiti il concerto illuministico europeo. Bucano lo schermo della comunicazione elitaria e rivelano anche alle menti più ottuse le crudeltà inquisitorie, le distorsioni moralistiche codificate, l'uso «sapienziale» della tortura su cui si fonda il sistema della giustizia. La breve opera di Voltaire, si sa, nasce da un tragico episodio di cronaca: l'affaire Calas (il commerciante ugonotto di Tolosa accusato di aver ucciso il figlio per motivi di abiura religiosa, mentre il ragazzo, psicolabile, si era in realtà impiccato). L'altra, del giovane Beccaria, trascende invece l'emozione suscitata da questo o quel misfatto, pro- Franca D'Agostini rompe dalla visione del problema in sé, dalle sue implicazioni universali, e indica con un linguaggio diretto, antiaccademico, gli orrori che saldano la legittima difesa della comunità e il destino del colpevole. Si capisce l'esultanza di Voltaire il giorno in cui un viaggiatore scozzese, James MacDonald, gli regala una copia del libretto; e si comprende l'immediato successo che accompagna, e quasi travolge, Beccaria, nella capitale francese. Quale però la genesi del trattatello? Quale la parabola dell'autore dopo il trionfo ottenuto a ventisei anni? Risponde alle nostre curiosità l'ammirevole biografia di Renzo Zorzi dedicata al pensatore milanese. Un personaggio a più facce che Zorzi ci restituisce con assoluto rigore, senza tuttavia rinunciare al piacere di «narrarlo». Basta immergersi nei ghiotti documenti d'epoca, penetrare nell'intimità di casa Beccaria, frequentare gli amici del Caffè, studiare da vicino i fratelli Verri, sbirciare in un'incisione su rame 0 protagonista - panciuto, molliccio, indolente - perché la biografia si tramuti in un «perfido» romanzo settecentesco. Oggetto del contendere: Dei delitti e delle pene che certifica la fama di Beccaria, del solo Beccaria. Donde l'odio e l'accanimento dei Verri. D'accordo, l'estensore materiale è Cesare; lo stesso Alessandro afferma di averlo visto scrivere ogni sera «di suo pugno, per cùca due mesi». Ma i propulsori? i compagni di strada ingenerosamente taciuti, «espropriati»? Ecco l'asciutta testimonianza di Pietro: «Il libro è del marchese Beccaria. L'argomento gliel'ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro, Lambertenghi e me. Nella nostra società la sera la passiamo insieme, ciascuno travagliando. Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo, conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adatto appunto». Dunque, un non insolito lavoro di gruppo che si personalizza grazie al quid misterioso della scrittura e a quel corredo di «imagini vivacissime» che il terribile Verri è disposto a riconoscere. Debole di carattere, vittima consapevole di una moglie infedele (la prima moglie, Teresa Blasco), afflitto da mille ansie, dal terrore del buio intimidito da folletti e streghe, Beccaria si avvia alla maturità oppresso da quella gloria che si porta dietro come un àbito fuori moda. Tanto che l'invelenito Pietro si spinge a dispensare qualche parola di commiserazione: «Non sarei sorpreso se egli diventasse pazzo furioso; malgrado i suoi demeriti, non vorrei che il Cielo mi vendicasse sino a quel segno...». Sulla presunta follia del philosophe, Cesare e Paola Lombroso calcano volentieri la mano, parlano d'«infantilismo», d'«imbecillità» e indugiano a descriverne le stravaganze («tremava puerilmente finanche in età matura per lo spavento delle anime del purgatorio...»). Ma qui Zorzi ha buon gioco nel contestare il referto lombrosiano. Pur volendo raccogliere interamente tali notazioni, «ciò sembra configurare piuttosto mi eccesso di impressionabilità, che costituire sintomo di follia». Ad ogni modo, folle o appena «anomalo», certo è che il comportamento del marchese-filosofo riserva al lettore un inatteso risvolto. Il 14 marzo del 1774 muore l'avvenente Teresa e il 25 aprile il vedovo è pronto a firmare il contratto di nozze con la contessa Anna Barbò, cugina dei Verri. Un matrimonio comunque riuscito che lo fortifica, 10 rigenera. Anna Barbò, poco più che ventenne, a differenza di Teresa, non vede che lui, non vuole abbagliare che lui. E Cesare le corrisponde nei panni di marito novello, attivo negli incarichi di governo, a tratti brillante, desideroso di dimenticare gli inganni subiti e l'ingiuria più grave che circolava nei salotti milanesi: «castrato». Quando si spegne, il 28 novembre del 1794, «quel che più meraviglia - osserva Zorzi - è il completo silenzio sotto cui passò». Sono trascorsi in tutto tre decenni dagli applausi parigini, la storia nel frattempo si è inferocita, ha allungato 11 passo, e Cesare Cantù può così spiegare le ragioni di quel silenzio: «Il mondo era assorto nei grandi scotimenti della Francia...: che gl'importava mai d'un oscuro filosofo?». Fortuna che la storia sbugiarda di frequente i suoi devoti e concede il giudizio d'appello. Sicché l'«oscuro filosofo», nonostante le omissioni constatate e le umane inadeguatezze, sembra avere le carte in regola per risplendere di luce propria nei conguagli di fine millennio. Giuseppe Cassieri Cesare Beccaria, l'autore di «Dei delitti e delle pene» «Hi >:::-.s;:*>-,-.^>-\<:fx:v e delle pene» Hi x:v