L'immensa rabbia del soldato Dimitrij di Domenico Quirico

L'immensa rabbia del soldato Dimitrij DUE VITE PARALLELE L'immensa rabbia del soldato Dimitrij GROZNY DAL NOSTRO INVIATO C'è un posto, a Rostov sul Don, nella sua città, dove Dimitrij ha giurato che non vuole andare: è un tetro palazzo schiacciato tra le caserme dove arrivano i cadaveri senza nome della guerra cecena. Ragazzi spesso bruciati nella trappola dei loro blindati di cui i guerriglieri hanno fatto strage e che si possono riconoscere solo attraverso le piante dei piedi, «perché le scarpe resistono di più al fuoco». Dimitrij, per il suo ancora lontano dopoguerra, ha un altro progetto: «Voglio andare a Mosca, in qualcuno di quei bei locali dove suonano il rock, pieni di gente che ha 26 anni come me, quelli che fuori hanno la Mercedes e a fianco le ragazze di lusso. E voglio salire su un tavolo e raccontargli un po' di quello che ho visto qua, a Grozny, vedere se si metteranno ancora a ridere». Per ora dirige il tiro di una batteria di mortai che prepara l'attacco finale. Lui sposta una vite di qualche centimetro e la bomba cade qua e là, qualche ceceno, forse, muore: «Cosa ci faccio qua? Mi ha fregato la perestrojka, quando ho compiuto 18 anni ci hanno subito arruolati per il servizio militare, due anni, così mi sono istupidito, quando ho finito stavo con i miei coetanei e non li riconoscevo più, le cose che prima mi divertivano erano diventate indifferenti. Ero un campione di lotta libera, potevo magari trovare lavoro come guardia del corpo o entrare in una banda criminale, adesso tutta questa gente ha le tasche piene di soldi. Invece sono andato in Accademia e il massimo sogno è riuscire in qualche modo a farmi assegnare un appartamento. Ecco, in questo manicomio sto facendo la fila per l'appartamento». E' davvero difficile battei si quando c'è una rissa nelle retrovie; e allora la guerra appare una madornale, recipro¬ ca inettitudine: «Si vedono cose da pazzi: sto a un posto fortificato nel cuore della città, passano blindati carichi di rambo armati fino ai denti, ragazzotti avvolti di nastri di mitragliatrici che magari non si sono accorti di non aver inserito il caricatore. Gli grido: fratelli, attenti a cosa fate. Dopo un po' ritornano, con i piedi per aria. Arrivano reclute da tutta la Russia, li mettono davanti a un blindato, un ufficiale, saltellando come un orso, gli spiega per tre minuti come bisogna avanzare tra gli edifici pieni di cecchini, mostrano l'interno del mezzo su cui dovranno crepare e poi li buttano nella fornace. Abbiamo fatto guerre dappertutto per imparare che non si va all'attacco se non hai l'appoggio dell'artiglieria, se non sei ben coordinato con quelli che stanno alla tua destra e alla tua sinistra, e poi gettiamo via tutto quello che abbiamo imparato in questo letamaio. Non è vero che qui non ci sono soldati coraggiosi, sono i generali che fanno schifo. C'era un ufficiale che ci sapeva fare, quando lo hanno ucciso ho visto io i suoi uomini con gli occhi lucidi che piangevano, perché si fidavano di lui». Lebed, Eltsin, Ziuganov, la gente di Mosca con le loro bandiere e le loro promesse. Dimitrij non vuole sentirne neppure i nomi: «La verità che gli vorrei raccontare è semplice: più restiamo qui più la resistenza aumenta. Negli scacchi si potrebbe dire che siamo in una situazione di patta, non possiamo vincere. Certo possiamo radere al suolo tutto, ma poi dovremmo portarci dietro tutta la popolazione russofona perché non ne resterebbe vivo uno. Questa guerra può durare dieci anni senza ricavarci niente. Ecco, forse a Mosca andrò anche per raccontagli queste cose. E in attesa che i capi se ne accorgano e decidano cosa fare, datemi quel maledetto appartamento». Domenico Quirico

Persone citate: Eltsin, Lebed, Ziuganov

Luoghi citati: Grozny, Mosca, Rostov, Russia