Il trionfo dei gioielli finti arte nata per Hollywood di Bruno Ventavoli

Il trionfo dei gioielli finti arte nata per Hollywood Il trionfo dei gioielli finti arte nata per Hollywood distribuzione, dal cinema al bel mondo. «Sono gioielli nati dalla fantasia intesa come libertà d'espressione - scrive Gabriella Mariotti -, Come imitazione del vero, come elogiò del falso e dell'appariscente. Una sottile barriera divide il vero dal falso, e questa barriera è talmente esigua che nel '29, all'inizio della Grande Depressione, il falso si trasforma in unica via d'uscita per chi lavora nel campo della gioielleria». Sugli abiti poveri, riciclati, raffazzonati, i finti gioielli fanno bella mostra di sé, indipendentemente dal loro valore intrinseco. Altro motivo di boom è l'arrivo in America dei rifugiati dall'Europa. Chi sfugge dal nazismo, dai totalitarismi nascenti, non potendo portarsi dietro denaro e gioielli, se bellici. Durante i quali molte di queste aziende dovettero anche convertirsi all'industria militare. Weisberg, per esempio, impiegava la «lucite», trasparente come il plexiglas (utilizzata nelle pance dei bombardieri per quelle bolle trasparenti), rimodellabile e colorabile nei modi più disparati. La Napier, del Connecticut, nota per la sua precisione, durante la prima guerra mondiale costruì invece baionette, maschere antigas, fibbie e mostrine per ufficiali. Trifari produsse articoli da precisione per la Marina e gli stemmi della Royal Air Force britannica. Altro grande contributo di fortuna a questi gioielli «fantasia», venne dal mondo dello spettacolo, che ricorreva per necessità a finti gioielli da appendere al corpo delle dive. La Hobé (nata a Parigi nell'800 da un tedesco) strappa il primo favoloso contratto vendendo abiti ricamati e gioielli di scena per le ballerine di Ziegfeld. Eugene Joseff, disegnatore pubblicitario, vide in Hollywood la fonte del suo futuro successo. Emigrò in California, fece anticamera por qualche anno negli studios dei grandi produttori per vendere i gioielli di Strass che produceva. Cominciò con un braccialetto e quattro bottoni. Poi colonizzò colli e polsi di tutte le dive. Uscivano dalla sua azienda i gioielli di Rossella O'Hara in Via col vento. E quando morì, nel 1948 in un incidente d'auto, il novanta per cento dei «costume jewels» erano opera sua. E gli abiti neri delle divine, da Greta Garbo a Joan Crawford, da Marlene Dietrich a Bette Davis, luccicarono spesso di finta preziosità nel bianconero del mito. Gabriella Mariotti, giornalista di moda, collezionista e «storica» di gioielli fìnti americani gola a pirati e ladroni. Per non lasciarsi depredare, facevano fondere le monete in vassoi, calici, teiere. Fu per accontentare questi primordiali antifurti che si sviluppò un'abile colonia di gente che lavorava i metalli (soprattutto italiani, emigrati da Itri). Le donne raccordavano le catene, le bambine dalla vista acuta incastonavano le minuscole pietre. Providence era anche molto vicina, ferroviariamente, alle ricche New York e Boston. E di lì partivano commessi viaggiatori (perché quelle gioie erano più in sintonia con le solitudini milleriane che con le colazioni da Tiffany) con le loro valigette colme di finti gioielli. Gli artisti di Providence realizzavano prototipi in oro, quindi serie più economiche solo laminate, o sottoposte a doratura con quantità esilissime del prezioso metallo. L'arte del risparmio dei materiali compì capriole estreme nei periodi gazzini. Nel '53, Alfred Philippe (genio della Trifari) disegna parure, braccialetto, orecchini, alla signora Eisenhower per partecipare al ballo d'ingresso di suo marito alla Casa Bianca. Le aziende di questi gioielli sono quasi tutte concentrate a Providence, nel Rhode Island. La ragione, spiega Gabriella Mariotti, affonda le radici nelle nebbie limitrofe di storia e leggenda. Qui, nel '700, approdavano mercanti di rhum e schiavi. Tanto ricchi da far Bruno Ventavoli