«Ero una macchina di morte» di Francesco La Licata

L'ex boss racconta in videoconferenza l'addio a Cosa nostra L'ex boss racconta in videoconferenza l'addio a Cosa nostra Ero una macchina eli morte» Ganci: poi mi sono pentito per mio figlio aver rivelato agli investigatori il nascondiglio del «patriarca» Bernardo Brusca. Definisce la guerra di mafia degli Anni Ottanta (mille morti) la «pulitina di piedi» e dell'imputato Nino Madonia, boss di Resuttana, dice: «E' quello che mi ha fatto commettere più omicidi. Giovanni Leone mi è stato presentato da mio padre in una delle gabbie dell'aula bunker di Palermo. Giovanni Teresi, detto "u pacchiuni" (il ciccione ndr) era un esperto di armi e fornì le istruzioni per provare un bazooka a San Giuseppe Jato. Ma la prova non andò bene». Uno spaccato di Cosa Nostra, il racconto dei rapporti, formalmente sereni ma sostanzialmente infidi, tra i cognati al vertice della «cupola»: Totò Riina e Leoluca Bagarella. Ganci dice che la sua famiglia aveva il compito (di grande responsabilità) di filtrare le richieste di appuntamenti con don Totò Riina avanzate dagli uomini d'onore di altre «famiglie». Così a casa di «Lillo», in via delle Madonie, si incontrarono pure il «padrino» e Bagarella, quest'ultimo appena uscito dal carcere. Riina gli intimò di starsene a Corleone e di non farsi mai vedere a Palermo. Cosa era successo? Bagarella aveva frequentato Vincenzo Puccio, «famiglia» di Ciaculli, mentre questi tentava di rovesciare il trono di Riina. E il «capo» non gradì la vicinanza del cognato con l'uomo che «stava organizzando il colpo di Stato». La «prima» di Ganci si conclude con un vero pezzo di teatro. Coprotagonista il legale di Riina, Cristoforo Fileccia, che si chiede come debba chiamare il pentito dal momento che lo conosce «da quando aveva i calzoni corti», per cui «mi viene difficile chiamarlo signor Ganci». «Mi chiami come mi ha sempre chiamato», è stata la risposta. Il minuetto è interrotto dal presidente Scaduti: «Commovente, ma andiamo avanti». Quindi Calogero, sollecitato da Fileccia, elenca tutte le sue attività, esponendosi all'ironia del legale che, vecchia volpe, chiosa: «Io lo dicevo sempre che lei aveva la stoffa dell'imprenditore». GLI OBIETTIVI FALLITI Ecco alcuni dei più clamorosi attentati studiati da Cosa nostra e poi per varie ragioni non realizzati, secondo quanto i collaboratori di giustizia hanno raccontato negli ultimi due anni. STADIO OLIMPICO DI ROMA. Una Lancia «Thema» imbottita di 120 chili di esplosivo e parcheggiata vicino a un camion dei carabinieri doveva esplodere una domenica di campionato, alla fine del '93, al termine di una partita. Ma il radiocomando a distanza non funzionò. L'episodio fu rivelato da uno degli arrestati nell'inchiesta sulle autobombe di Firenze, Milano e Roma. SIRINGHE IN SPIAGGIA. Nel 1993, prima dell'attentato di maggio in via dei Georgofili, la mafia ipotizzò un'altra azione eclatante volta a colpire l'immagine dell'Italia e del turismo: riempire una spiaggia dell'Adriatico di siringhe infette. La paternità del progetto sembra fosse del boss di Cosa nostra Totò Riina, che la espose nel corso di una riunione dei corleonesi. STRAGE DEGLI INNOCENTI. Nelle state del '92, al boss Gioè che manifestava preoccupazione per il fatto che la progettata esplosione di un'autobomba in centro di Trapani, con lo scopo di eliminare un mafioso non più «affidabile», avrebbe causato vittime innocenti, Riina avrebbe così risposto: «A Sarajevo muoiono tanti bambini, perché ci dobbiamo preoccupare noi?» IL FIGLIO DI ANDREOTTI. L'idea di uccidere uno dei figli di Giulio Andreotti, rivelata dal collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, l'avrebbero avuta, alla fine del '93, i boss Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. Secondo il racconto del pentito, il senatore era finito nel mirino per aver tradito Cosa nostra con una serie di iniziative per la lotta alle cosche. Francesco La Licata

Luoghi citati: Corleone, Firenze, Italia, Milano, Palermo, Roma, San Giuseppe Jato, Sarajevo