«Tritolo per la torre di Pisa»

«L'esplosivo è quello trovato in primavera a Formello» «L'esplosivo è quello trovato in primavera a Formello» «Tritolo per la torre di Pisa» Vigna: doveva saltare 3 anni fa GODIAMOCI LA FESTA Los Angeles 1932 però erano ancora Olimpiadi piccole, Roma I960 però si giocava in casa. Buon lavoro, pronosticato ma diffìcile, e compiuto anche in modi diversi da quelli previsti, attesi. Lo sport italiano funziona, ecco il verbo giusto. Si era proposto un programma secco, quasi cinico, sulla pelle propria e altrui - vincere lì, approfittare di quella situazione là, disinteressarsi dell'impossibile - dopo gli appena 6 ori di Barcellona 1992, e l'ha seguito ed eseguito. Cercando l'oro anche in miniere minori, dove le pepite non sono grandi come nell'atletica, nel nuoto. Il fatto è che lo sport nostro, per conservare la sua autonomia che è anche opulenza, deve vincere, deve portare cifre grosse, grasse. Così può continuare a succhiare dalle due mammelle, come poche altre organizzazioni omologhe al mondo: quella dello statalismo (Coni, federazioni) e quella del liberismo (sponsor, organizzazioni varie). I nostri atleti di vertice sono trattati da cocchi belli come lo erano quelli del socialismo reale, e possono fare soldi nel privato come i vitellini d'oro del capitalismo. Hanno forti supporti di denaro, di assistenza, di tecnici, e guadagnano, fra premi subito e pensioni o liquidazioni poi, sul miliardo. Gran doping. Molte volte però l'abbondanza di denaro genera la corruzio- FIRENZE DAL NOSTRO CORRISPONDENTE a tirare in ballo Antonino Gioè, uno degli esecutori dell'attentato al giudice Falcone, che è morto suicida a Rebibbia nel luglio del '93. Il mafioso era stato avvicinato da un presunto infiltrato nel servizio dei carabinieri, Paolo Bellini, neofascista che si faceva chiamare Da Silva. Nella primavera del '92 Bellini - sempre secondo il racconto del pentito - sarebbe stato incaricato da un sottufficiale del nucleo per la tutela del patrimonio artistico di recuperare alcune opere d'arte rubate dalla pinacoteca di Modena e finite nelle mani della mafia. Gioè avrebbe chiesto al misterioso interlocutore, che sosteneva di muoversi per conto del ministero dei Beni Culturali, di individuare un «soggetto politico» in grado di accettare le richieste delle cosche. \ Richieste pesantissime: in cambio delle opere d'arte lo Stato avrebbe dovuto concedere gli arresti domiciliari a cinque «pezzi da novanta» di Cosa nostra, fra i quali Pippo Calò e Luciano Liggio. Uno scambio che, secondo il racconto del pentito, fu definito improponibile. «Quella non è gente seria: che ne direste se una mattina vi svegliaste e non trovaste più la Torre di Pisa?», sarebbe stato il minaccioso commento di Gioè. Non erano minacce generiche, non era solo uno sfogo rabbioso di Cosa nostra contro lo Stato. La mafia aveva realmente ipotizzato di far saltare la Torre di Pisa come ulteriore obiettivo della strategia mafiosa attuata nel 1993 e rappresaglia contro il regime di massima sicurezza adottato contro i boss rinchiusi nelle carceri della penisola L'esplosivo venne fatto trovare da un collaboratore di giustizia a Capena, vicino a Formello. Doveva essere collocato sull'ultimo anello della torre di Pisa. Ma nel frattempo vennero effettuati alcuni arresti e il progetto fu abbandonato. Così ha raccontato domenica sera il procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna, intervendo con il collega di Palermo Giancarlo Caselli e il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, a un dibattito sulla «ecomafia» organizzato a Rispescia (Grosseto) nell'ambito della festa nazionale di Lega Ambiente. E' stato un pentito a parlare ai magistrati del progetto di far saltare la Torre e a indicare la santabarbara dove la mafia conservava centinaia di chili di tritolo. Come le autobombe di Milano, Roma e Firenze, l'attentato alla Torra avrebbe dovuto costituire l'ennesima sfida allo Stato e alle sue leggi. Un'azione clamorosa che, come accadde per l'esplosione in via dei Georgofili, a due passi dagli Uffizi, avrebbe avuto un risalto internazionale. Secondo Vigna, la mafia voleva a ogni costo forzare lo Stato a cancellare la normativa premiale nei confronti dei pentiti e l'articolo 41/bis, che prevedeva l'isolamento in carcere dei boss. Un «carcereduro» deciso dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, in contemporanea con il trasferimento in massa dei capi di Cosa nostra nei supercarceri di Pianosa e dell'Asinara. Per cercare di raggiungere questi scopi la strategia mafiosa aveva cambiato bersaglio: dalle persone alle opere d'arte. «Musei e chiese - ha dotto il procuratore Vigna - erano obiettivi stravaganti fino a ieri nell'attività mafiosa. Ma una persona, per quanto importante, può essere sostituita, un'opera d'arte è persa per sempre. Di qui l'idea di colpire i boni artistici come patrimonio non sostituibile». Era incomprensibile, nella logica mafiosa, compiere azioni sul continente portando a termine stragi non contro i nemici di Cosa nostra, e quindi carabinieri, poliziotti e magistrati, ma contro innocenti. Ma c'è di più. La torre di Pisa era finita nel mirino della malia anche per una strana «trattativa» che non era andata in porto. E' stato un pentito