Quistelli: non sono un ammazzasentenze

Il presidente del tribunale: «Priebke è colpevole, ma la prescrizione era inevitabile» Il presidente del tribunale: «Priebke è colpevole, ma la prescrizione era inevitabile» Quistelli: non sono un ammozzosentenze «La gente ha travisato un verdetto rivoluzionario» :v:-x::< <<■'.■:■■•-a TULLIA Zevi scende in strada, la gente le chiede: «Signora, che facciamo adesso?». Poco distarne da lei, spalla a spalla, la casa del rabbino Toaff in stile toscano, piena di mobili scuri e libri antichi; il rabbino però è lontano, all'isola d'Elba in vacanza. Siede ansioso vicino alia radio, in attesa delle telefonate dei suoi, che arrivano a pioggia. 11 Consiglio della Comunità, con il suo grande tavolo nero dove siedono i 27 membri eletti, si prepara a riunirsi d'urgenza: arrivano tutti, fra loro Claudia Fellus, la giovane vicepresidente con la sua vampa di lunghi capelli, il presidente Claudio Fano, tutte le forze politiche che spesso s'incontrano e stavolta sono concordi. La destra, la sinistra, i libici, i negozianti, gli intellettuali, i giovani studiosi del Tempio dei Giovani, il gruppo del Circolo Martin Buber... Ma manca qualcuno. Manca il capopopolo di un gruppo eh ragazzi, come li chiama lui, Emanuele Pacifici: il gruppo dei ragazzi più duri, pronti a scontrarsi con i naziskin, quelli che «Israele ha sempre ragione». Emanuele è in viale delle Milizie al 5, in tribunale: «Senz'acqua, senza cibo, assediati dalla polizia e dagli autonomi, a centinaia in una stanzetta, pronti a tutto pur di non far uscire di là il criminale nazista, pur di cercare di far tornare indietro le lancette del tempo: che non sia vero, che non funzioni quella maledetta assoluzione, che non ci si lasci soli a piangere, a noi ebrei, e ai famigliari delle vittime». Pacifici è il consigliere unico della lista «Per Israele», 600 voti di preferenza, il secondo in tutta Roma. Nel corridoio davanti al tribunale resta in piedi con altri giovani, o con gli anziani parenti delle vittime, o con i reduci dai campi di concentramento, alcuni amichevoli, altri che non si fidano, altri addirittura ostili. Passa una nottata sul filo del rasoio, guidando la folla, e alla fine risultando il protagonista della trattativa con il governo. Accanto a lui ci sono anche vecchi nemici politici, come Victor Majar, rosso di pelo e di idee politiche, membro del Centro Martin Buber, mescolato insieme a Dario Cohen, un suo vecchio amico, o a Michela Procaccia, anche lei del Buber. Vanno e vengo- zia significava ergastolo, l'unica via per condannare e non liberare Erich Priebke. «Io faccio il giudice, non mi posso preoccupare di quello che vogliono non le masse, ma le piazze. Applico le leggi e basta». Non si sente un po' il Corrado Carnevale della giustizia militare, un nuovo «ammazzasentenze»? «No, per niente». La vostra sentenza è stata criticata praticamente da tutti. Come mai? «No comment, Posso solo dire che capisco la logica della politica». Che cosa pensa del nuovo arresto di Priebke? «Giuridicamente è fondato, poi nel merito si vedrà. Il ministro della Giustizia è un politico, si sarà reso conto di quello che ha fatto». E dell'assedio di ieri? «Forse sono stato un po' ingenuo, avessi capito prima quello che sarebbe successo, avrei tenuto tutti fuori dal palazzo. Non siamo usciti scortati dalle forze dell'ordine per evitare altre polemiche e altri incidenti. E per una questione di dignità: non sono un arbitro venduto, io». [i bi] E lui si doveva sottrarre». Ma non l'avete condannato, presidente. L'avete lasciato libero. «E che posso farci se il processo è avvenuto a 52 anni di distanza dai fatti? Noi abbiamo concesso delle attenuanti che hanno evitato l'ergastolo, e a quel punto la prescrizione era inevitabile. Che Priebke ricevette un ordine da un superiore mi pare innegabile». Gli avete anche concesso le attenuanti generiche, avete dato la patente di «brava persona» ad un ufficiale nazista che per cinquant'anni è rimasto nascosto senza dire una parola su quel massacro. «Noi abbiamo dato una valutazione della personalità, che può essere criticata, ma va rispettata. Ricorressero in appello. Ma un giudice non si può preoccupare delle conseguenze della sua sentenza. Se siamo arrivati a questo punto, allora le istituzioni sono veramente a un passaggio delicatissmo». Che cosa ha da dire ai parenti delle vittime delle Ardeatine? «Che sono con loro, ho sofferto con loro, come si fa a non rendersi conto di questa tragedia?». Presidente, per quella gente giusti¬ Tullia Zevi: una grande occasione storica per l'Italia perduta perché affidata a mani incompetenti [gio. bia.] «Quando Toaff mi ha detto: "Ragazzi fate quello che vi detta la coscienza" mi son messo a piangere» > \ -~ 5 • v H-«fluiti 1 A IL caso Priebke «non poteva» essere risolto da un tribunale militare: il tribunale militare «non ha» sbagliato, ma «era» un tribunale sbagliato. Credere che la giustizia stia nella giustizia militare è come credere che la storia stia nella storia militare. Per capire cos'è successo alle Fosse Ardeatine occorreva una lettura della strage che i giudici militari non hanno, non son tenuti ad avere. Le vittime arrivavano all'entrata delle Fosse a gruppi di cinque. Appena entrati capivano tutto. Priebke le aspettava con l'elenco in mano. I prigionieri ricevevano da Priebke l'ordine di dire ad alta voce il proprio nome, obbedivano tutti, il capitano cercava sul foglio quel nome e lo cancellava. Con quel tratto di penna cancellava gli uomini dalla vita. La distanza tra il fulmineo dialogo e il luogo dell'esecuzione era breve. Il luogo era una buca, dopo le prime cinquine la buca era un groviglio di cadaveri, e i nuovi condannati che vi s'affacciavano cercavano di balzare indietro svincolandosi, ma venivano respinti in avanti, sull'orlo, e sparati. Qui accadeva qualcosa che abbiamo ignorato per mezzo secolo. E che qualcuno, il tribunale militare di Roma, non ha ancora capito. Il fatto che chiamiamo «Fosse Ardeatine» sta in questa cosa, e se il tribunale non l'ha capita non ha capito quel che stava giudicando. La cosa è la difficoltà dell'esecuzione. Una difficoltà organizzativa, morale, psicologica. Non tutti ce la facevano. Nel plotone d'esecuzione, diviso in piccole squadre, qualcuno vomitava, sveniva, tremava, scappava. La sentenza è tutta incentrata sull'«obbedienza»; giustamente Priebke è lì. Le SS sono lì. L'obbedienza ha avuto diversi gradi. Priebke sta al grado più alto. Quelli che svenivano o che tremavano, e che sparavano solo se minacciati, al grado intermedio. Quelli che, prima di Priebke, si sono rifiutati di eseguire l'ordine, al grado più basso. Per scuotere i disobbedienti dalla paura e dalla paralisi, l'ufficiale doveva dare l'esempio. Priebke dice di aver comandato la prima parte della interminabile rappresaglia, dunque diede l'esempio per primo: fece girare un prigioniero a caso, e gli sparò alla nuca. L'esempio dovette venir ripetuto. Dopo tante contraddizioni, Priebke ha ammesso di avere sparato una seconda volta. Dare l'esempio in una fucilazione comporta il ruolo di guida. Includendo Priebke tra gli obbedienti, che non potevano sottrarsi, il tribunale militare intende (lo vedremo dalla sentenza) che anche questo ruolo di «guida» era coatto. Per le SS il dilemma era: obbedire o morire. Per gli ufficiali era: dare l'esempio o morire. E' una lettura «militare», infatti viene da un tribunale militare. Questa lettura separa gli obbedienti dall'ordine, gli schiavi dall'organizzazione gerarchica che li domina. Da una parte il potere e la volontà del vertice nazista, dall'altra gli esecutori. Si può condannare il potere, ma si tiene conto delle attenuanti per gli esecutori. Ma quel potere esisteva perché c'erano quelli che dedicavano la vita a servirlo e a imporlo: i volontari. Per intendere Priebke come un obbediente, il tribunale militare ha dovuto intendere le SS come dei soldati, ignorando il conflitto che esisteva tra SS e soldati. Aderendo al corpo delle SS, Priebke sceglieva un tipo di obbedienza nel quale episodi come le Fosse Ardeatine erano da accettarsi. Per una cultura militare, con quell'adesione la sua responsabilità personale finisce. Per ogni altra cultura, comincia. Dando le attenuanti per quella costrizione, e apprezzando il comportamento successivo (mai una illegalità, ma mai un pentimento), il tribunale accetta un percettibile filo di eredità dall'ideologia gerarchica, total-militare, che creava quel concetto di obbedienza. Senza rendersene conto. Ma questa eredità stacca la sentenza dal popolo: il giudizio su un fatto enorme, che ci riguarda tutti, è stato affidato a un tribunale che rappresenta solo se stesso. La formula che annunciava il giudizio «in nome del popolo italiano» stavolta era infondata. PREMIATA L'OBBEDIENZA

Luoghi citati: Israele, Italia, Roma