Da Goethe ad Arpino, un mito

Da Goethe ad Arpino, un mito Da Goethe ad Arpino, un mito «Appaiono durante il gioco del pallone atteggiamenti tanto belli da meritare di essere fermati nel marmo. Singolarmente bello è l'atteggiamento del battitore...», scriveva Goethe nel suo Viaggio in Italia, parlando della pallamano o del «pallone col bracciale», parenti stretti della pallacorda, assai popolari allora anche nel nostro Paese. Tanto che lo stesso Leopardi dedicò la poesia (giovanile) A un vincitore nel pallone a un «garzon bennato» visto nel momento in cui «te l'echeggiante / arena e il circo, e te fremendo appella / ai fatti illustri il popolar favore». Ma il gioco del pallone (popolarissimo nell'Italia Centrale: lo Sferisterio di Macerata, dove ora va in scena l'opera lirica, venne costruito per questo sport) è soprattutto nel cuore degli scrittori piemontesi, fino al nostro secolo: da De Amicis che lo racconta nel romanzo Gli azzurri e i rossi (del '97) a Cesare Pavese (che vi allude anche in Feria d'Agosto) fino a Giovanni Arpino. E c'è anche Beppe Fenoglio: «Tirano certi palloni al volo così forti che se ti beccano al ventre ti fanno secco - scriveva nel racconto II Paese -, mi piace a mi spaventa insieme». Eppure la pallacorda fu anche levatrice di rivoluzioni e successi popolari. Dimentichiamo per un attimo le sue origini monastiche, il terreno di gioco che sembra modellato su certi chiostri (pianta rettangolare, alte mura attorno e una galleria che affianca il lato più lungo, su cui le palle scivolano senza uscire dal campo grazie a una reticella), e l'antica codificazione che ne regola lo svolgimento con pedanteria estrema. Dimentichiamo anche il passaggio progressivo dalla palma della mano (la paume) quale «Abbiamo messo uno stand al Roland Garros. Incuriosita, Steffi Graf ci aveva fatto sapere che voleva passare a trovarci», dice Monsieur Kressmann. Invece nulla. Ma quelli della rue Lauriston hanno trovato il modo per consolarsi. Ecco la foto con Edoardo d'Inghilterra in visita alla venerabile istituzione. Gioca a pallacorda da sempre, il principe, e poterlo fare nella terra natale del suo sport favorito coronava un vecchio sogno. Altro habitué, Alain Delon. Ci girò una serie di scene per l'immancabile film di cappa e spada. Ma bisogna prenderne, di lezioni, prima d'essere credibili in scena. Anche un buon tennista sulle prime fa cilecca. La palla è troppo pesante, rimbalza poco, e poi vederla carambolare un po' ovunque disorienta. Gli esperti non hanno dubbi. Malgrado non ne abbia l'aria, la pallacorda è ben più faticosa e difficile del tennis. «Diciamo osserva con sufficienza forse eccessiva Gii Kressmann - che fra i due vi è lo stesso gap che separa gli scacchi dalla dama». Ma una differenza supplementare salta agli occhi del profano. Grazie al gioco di sponda, all'inclinazione del piancito e a una provvidenziale scanalatura sotto la rete che le ingoia, le palle perse da recuperare sono rarissime. E i raccattapalle inutili anche nelle grandi competizioni. I re di Francia erano, insomma, più democratici di Boris Becker e Andrea Agassi. Qui accanto, Enrico IV; a destra, la pallacorda vista dal Doganiere Rousseau; in alto, Napoleone III ed Erasmo da Rotterdam

Luoghi citati: Arpino, Francia, Italia, Macerata