Dalmazia utopia di dopodomani
Tradotto il «Viaggio» di Bahr Tradotto il «Viaggio» di Bahr Dalmazia, utopia di dopodomani 0 chiamavano l'uomo di dopodomani. Guardava al nuovo, teorizzava la modernità, scopriva talenti letterari. Anticipava le mode e le incoraggiava. Nella Vienna di fine secolo Hermann Bahr lanciava la letteratura del futuro: non dalle cattedre universitarie, ma dal chiacchiericcio del Caffè Griensteidl. li c'erano un po' tutti, come recita un'ormai consunta leggenda: da Hofmannsthal a Schnitzler, da Beer-Hoffmann a Altenberg. Ma a pontificare il superamento del naturalismo e l'avvento della «mistica dei nervi», l'arte delle vibrazioni psicologiche, era soprattutto lui, il provinciale di Linz, il grande irrequieto che aveva annusato l'aria di Parigi e Berlino, amato Zola e Ibsen, imposto ai tedeschi l'ammirazione per D'Annunzio e Maeterlinck. Era un grande mattatore che s'ingeniava a creare legami e a facilitare carriere. Lanciò la Duse, appoggiò Mahler, fece conoscere l'opera del filosofo Ernst Mach, promosse gli artisti della Secessione e s'intrufolò nelle regie di Max Reinhardt. Né gli mancò il tempo per scrivere commedie e pochade di livello, che potremmo riassumere con un suo aforisma: «Non vi è donna completamente onesta né marito del tutto sprovvisto di corna». Una massima che anziché anticipare il futuro getta uno sguardo frivolo e banale sul passato. Ora proprio di quel passato, in chiave imperial-regia, Hermann Bahr si fa non di rado interprete. Quanto più è lontano da casa, tanto più l'Austria gli sorride come realtà multiculturale e sovrannazionale. Basta curiosare nella prima traduzione italiana del suo Viaggio in Dalmazia curata da Massimo Soranzio per la Mgs Press Editrice di Trieste, con prefazione di Predrag Matvejevic e saggio di Maria Carolina Foi, per rendersene conto. Per dodici giorni, nel febbraio del 1909, Bahr si trattiene nell'amata Dalmazia. L'aveva scoperta nel 1904 dopo una grave malattia. E ora vi ritorna alla ricerca del sole e del mare. Per lui non è soltanto una terra di fiaba e d'incanto, ma anche una provincia della monarchia austro-ungarica. Se c'è qualcosa che colpisce in questo resoconto fitto di richiami storici e culturali, di osservazione e incontri, è l'ingenua consapevolezza che quella regione marittima sia del tutto acquisita all'Impero. Essa anzi ne diventa simbolicamente un ideale microcosmo. Un paradiso dove serbi e croati convivono sereni, e dove l'utopia dell'intellettuale Bahr prospera come i pini, le opunzie, le agavi. Da Trieste, che giudica irreale, a Zara e Spalato, giù fino a Ragusa e al golfo di Cattaro, non è che un lungo, felice pellegrinaggio in una provincia del cuore. Sotto l'egida di Francesco Giuseppe tutto ritrova il proprio centro e un'impeccabile identità. Certo l'armrùnistrazione di Vienna dovrebbe essere meno rigida e più generosa, meno incline al sospetto, non nevrotizzata dagli irredentismi. Perché in fondo le popolazioni locali aspirano a diventare veri figli della grande Cacania. All'indomani dell'annessione da parte dell'Austria-Ungheria dei territori della Bosnia-Erzegovina per impedire il processo dell'unificazione degli Slavi del Sud da parte della Serbia, Bahr ha un rigurgito di fierezza nazionalistica e di universalismo. Come Werfel e Roth anche lui è figlio del mito asburgico, ma con un pizzico di cecità storica in più: ricicla la nostalgia in un presente di grandi aspettative. Questo viaggio può essere visto, come suggerisce Matvejevic, da molte prospettive: dall'Europa centrale o dai Balcani, in chiave germanica o slava. E naturalmente le cose cambiano a seconda di chi punta il cannocchiale sul Paese. Ma ciò che resta inalterato è il sentimento un po' astratto e conservatore di un intellettuale che guardava al futuro e finiva per non scorgere più il presente. Nel momento in cui i nazionalismi tornano a galla e la ex Jugoslavia è appena uscita da una guerra fra le più atroci degli ultimi cinquantanni, l'idea della casa comune può far sorridere amaramente. Ma Bahr resta l'uomo del dopodomani, con le sue utopie e il suo patetico slancio unitario. Forse da quel passato, rivisitato in chiave democratica, si può guardare avanti verso il dialogo e la convivenza. Luigi Forte Dai fori di un'ampia struttura quadrata, posta al centro della sala, sbucano vecchi modelli di Vespa. Tutto intorno, sulle pareti, quattordici pannelli rotondi su cui sono appesi i manifesti. «E' come se quelle Vespe d'epoca puntassero sui pannelli e andassero a riflettersi nei manifesti». L'architetto Claudia Bellini spiega così l'idea dell'allestimento della mostra «Disegnando Vespa: 14 manifesti per il cinquantenario di un mito» che si apre domani pomeriggio alle 19,30 al Roof Garden del Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale a Roma, e che resterà aperta sino al 5 agosto. E' anche una carrellata nella storia del costume e del gusto italiano del dopoguerra. Si parte da un tenero omino Anni 50 in bianco e nero e con il naso all'insù, disegnato da Leo Longanesi, che tiene in bilico una pallina accompagnato dallo slogan: «La Vespa non dà scosse». Non manca l'elefantino azzurro che si appende al manubrio, e vuole comunicare soprattutto senso di sicurezza, pensato da Sandro Scarsi. Ci sono due geniali, coloratissimi e famosi
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