La giustizia dei poeti

discussione. Un saggio di Martha Nussbaum: senza educazione letteraria non si diventa buoni cittadini La giustizia dei poeti discussione. Un saggio di Martha Nussbaum: senza educazione letteraria non si diventa buoni cittadini Neppure i giudici possono farne a meno Li A tradizione pedagogica dell'Occidente ha sempre pensato che l'educazione morale, civile, politica dei J nostri concittadini più giovani non può passare attraverso lo studio di manuali che espongano principi e regole, ma deve piuttosto attuarsi mediante l'assimilazione di una tradizione narrativa e letteraria. Così, i giovani greci dell'antichità già imparavano le storie di Omero ed Esiodo, e anche noi a scuola abbiamo letto l'Iliade, l'Odissea, Dante, Manzoni, fino a Pavese, Calvino, Fenoglio. Questa pedagogia «narrativa» si è per lo più giustificata con il vecchio argomento che ha sempre ispirato l'arte didascalica: la verità, soprattutto per gli animi acerbi dei fanciulli e dogli adolescenti, va insegnata mediante esempi e immagini che colpiscano la fantasia e imprimano nella mente i valori che si vogliono inculcare. Ma non tutti accettano questa idea: e anzi, forse è una rivolta contro di essa quella che si esprime oggi nella insofferenza per la cosiddetta «educazione umanistica», che appunto pone al suo centro lo studio dei testi classici della nostra tradizione letteraria e la conoscenza storico-filologica dei mondi da cui provengono. Un esponente ante litteram di questa rivolta contro l'educazione umanistica si può certamente riconoscere nel signor Thomas Grandgrind, uno dei protagonisti del romanzo Tempi difficili di Charles Dickens, il quale pensa che, in generale, l'abitudine di leggere romanzi sia dannosa all'educazione morale e politica dei giovani, perché guasta la loro capacità di giudicare razionalmente il valore delle azioni. Questo valore, secondo Grandgrind, va calcolato rigorosamente in termini di costi e benefici, secondo una prospettiva che ancora oggi fa da base a quell'orientamento di etica filosofica che si chiama utilitarismo, e che cerca appunto di dirimere i conflitti sui giudizi di valore attraverso l'applicazione del calcolo aritmetico alla sfera delle decisioni individuali e collettive. Naturalmente, l'utilitarismo non è sempre così radicale e spietato come quello che si esprime in tante pagine e personaggi del romanzo di Dickens (che in qualche modo, proprio in quanto romanzo, lo presenta in una forma estrema e insostenibile); la massima utilità che ciascuno deve cercare di realizzare con le proprie azioni non è solo utilità individuale e immediata, si definisce anche considerando la durata nel tempo e l'utilità per gli altri (dai quali, in molteplici sensi, dipende l'utilità per il singolo interessato). Ma resta vero che sempre di calcolo si tratta, e che, se si prescinde dalla capacità fantastica di raffigurarsi vividamente la vita degli altri, proprio la completezza del calcolo, che implica appunto il tener conto degli altri, finisce per essere minacciata. A questi temi - e a una discussione puntuale del significato di Tempi difficili di Dickens - è dedicato l'ultimo libro (Il giudizio del poeta, tradotto molto tempestivamente in italiano presso Feltrinelli) di Martha Nussbaum, docente di etica all'Università di Chicago, dove tiene corsi di «legge e letteratura». Ciò che affascina in questo libro, oltre all'acutezza delle analisi etico-let- terarie (alle quali, dopo il tramonto della critica marxista e del suo spesso dogmatico sociologismo, non siamo più abituati), è la ricchezza degli argomenti con cui si rivendica l'importanza dell'esperienza letteraria per una piena educazione morale e civile del cit¬ tadino. Non si tratta solo della pedagogia che mischia la verità (i valori etici) alle immagini (le storie narrate). Ciò che Nussbaum persuasivamente sostiene è che senza una fantasia educata dalla narrativa (principalmente letteraria; che dire delle altre esperienze narrati¬ ve come la televisione?) non si diventa buoni cittadini e, soprattutto (siamo in un corso della Facoltà di Legge), buoni giudici. Proprio da uno dei testi classici dell'utilitarismo, la Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, si ricava che l'imparzialità del giudice ha bisogno di una intensa partecipazione simpatetica alle emozioni di chi è coinvolto nei casi in discussione: per poter giudicare, occorre sapersi «mettere nei panni» di chi ha subito o fatto il torto, e poi anche tirarsene fuori valutando la cosa dal proprio punto di vista esterno. Ma tutto questo complesso gioco di identificazioni e disidentificazioni non si impara applicando le astratte regole del calcolo dell'utilità; è invece proprio l'effetto della esperienza narrativa. Così la concepiva già Aristotele (uno dei maestri a cui Nussbaum si richiama di preferenza anche negli altri suoi lavori di filosofia morale), per il quale la tragedia (ma forse l'arte letteraria in generale) suscita nello spettatore sentimenti di pietà e terrore proprio perché produce una identificazione con i personaggi coinvolti nella vicenda: Edipo è un uomo giusto e, almeno apparentemente, non merita quello che gli capita, e la sua storia potrebbe anche essere la nostra, per questo proviamo pena per lui e paura per noi. Perché, poi, questa identificazione e la pietà e terrore che ne conseguono causino un piacere, si spiega per Nussbaum (forse non completamente allo stesso modo per Aristotele) con la ragione che è la stessa possibilità di uscire per un po' da se stessi entrando con la fantasia nei panni dell'altro che dà piacere. Questa sospensione della propria ristretta identità con sé è insieme gioco divertente (ciò che fa del romanzo e del teatro un piacere) e educazione alla giustizia che si attua appunto, anzitutto, come capacità di provare le emozioni dell'altro, a cominciare dal dolore, sentendo compassione, senza dimenticare che questa identificazione è «solo» provviso¬ rio gioco estetico, che ci lascia dunque liberi di giudicare anche dal punto di vista di un osservatore esterno. Nussbaum non ritiene che tutti questi argomenti siano radicalmente opposti all'idea di un trattamento scientifico, anche in termini di calcolo, dei problemi etici e politici. In effetti, dato che i gusti e gli orientamenti in base a cui ciascuno valuta le cose sono profondamente segnati dalla sua individualità, anche per l'attendibilità e l'esattezza di un calcolo utilitario (che deve tener conto della massima utilità, dunque anche di quella degli altri) occorre sapersi mettere nei panni altrui, e questo è proprio ciò che si impara con l'esperienza narrativa. Alla fine, però, l'idea di verità che regge tutto il discorso non si lascia ridurre a quella positivistica a cui si ispira il signor Grandgrind, che vuole fondarsi sulla conoscenza oggettiva dei fatti; se non altro perché ciò che si tratta di tenere in conto nel calcolo dell'utilità sono anche i gusti soggettivi di tutti, e questi gusti sono «accertati» da un osservatore che a sua volta è portatore di orientamenti anch'essi soggettivi... Si rivela insomma impossibile fondare la giustizia sull'esatto rispecchiamento della situazione oggettiva, ma non per questo ci si riduce al puro e semplice relativismo: l'imperativo di tener conto della complessità e delle infinite differenze storiche e personali dei cittadini, al quale deve ispirarsi uno Stato giusto, è un imperativo universale della ragione; che però non riuscirebbe mai ad adeguarvisi senza la partecipazione del cuore educato dalla poesia e dalla letteratura; la giustizia dei giudici non può davvero fare a meno della «giustizia dei poeti». Gianni Vattimo Da sinistra Esiodo e Dante Alighieri In alto Cesare Pavese ve cvent(siamLeggPrdell'timericavce htecipziondiscocconi» de potandvistacome disapplcalcria itatoproptificvoltmo mencapi Anche l'utilitarista Adam Smith ritiene che per giudicare occorra sapersi «mettere nei panni» di chi ha fatto o subito il torto. Ma questa capacità non si impara col calcolo dell'utilità: è invece un effetto dell'esperienza narrativa Da sinistra Esiodo e Dante Alighieri In alto Cesare Pavese