Rushdie: il romanzo rivive sulle ceneri delle colonie

polemica. Lo scrittore contro r«imperialismo» di Steiner polemica. Lo scrittore contro r«imperialismo» di Steiner Rushdie: il romanzo rivive sulle ceneri delle colonie J N giorno diremo che non è più come una volta. Che avvocati del diavolo come George Steiner nemmeno il diavolo è più capace a farne. Prendiamo la conferenza che il professore ha recentemente tenuto all'Associazione degli editori britannici, in occasione del suo centenario. Di fronte a una platea che attendeva ansiosa le sue autorevoli analisi e previsioni, il professore ha parlato dell'ascesa e la caduta dei generi letterari, per poi lanciarsi in una magnifica orazione funebre della letteratura. «Quale romanzo può oggi competere con il reportage migliore, con il meglio di una narrazione immediata?», si è chiesto con soave voce di fiele. «Pindaro è stato il primo uomo a dire: questo poema vivrà quando la città che lo ha commissionato avrà cessato di esistere. L'immenso vanto della letteratura contro la morte. Oggi anche il più grande poeta, mi avventuro a dire, sarebbe profondamente imbarazzato a pronunciare queste parole. La grande classica vanagloria (quale meravigliosa vanagloriai della letteratura... non è più disponibile». Tutti a casa, quindi: fine dei giochi. Se ci riallacciamo agli altri fili del percorso filosofico di Steiner in questi ultimi tempi, dobbiamo dedurne che è morto il romanzo, è morto il lettore ed è morto anche il libro (questi ultimi assassinati dal computer). L'autore e la tragedia, poi, erano già stecchiti. La provocazione è evidente quanto ambiziosa. E sull'ultimo numero del New Yorker, dedicato da Bill Buford proprio alla fiction, è stata raccolta da uno dei più grandi narratori contemporanei, Salman Rushdie. Steiner dice che il romanzo è morto? V. S. Naipaul dichiara che il solo suono di quella parola gli dà la nausea? Leggete un po' qui. Innanzitutto Rushdie ci ricorda che Aristofane disprezzò Euripide, che Samuel Pepys definì «insipido e ridicolo» il Sogno di una notte di mezza estate, che Charlotte Bronté stroncò il lavoro di Jane Austen, che Henry James cestinò Middlemarch, e che tutti snobbarono Mdby Dick. Ancora? Quando Madame Bovary fu pubblicato, Le Figaro annunciò che «Monsieur Flaubert non è uno scrittore». Detto questo, se pensiamo che oggi in Germania si attacca Gunter Grass, che l'America infligge le pene della politicai correctness a Saul Bellow, e che un critico dell'ambizione di George Steiner se la prende non con un pugno di scrittori, ma con l'intera genia dei letterati europei del dopoguerra, Rushdie riflette che «forse soffrono tutti di una malattia culturalmente endemica: quella ricorren¬ te, biliosa nostalgia di un passato letterario che a suo tempo non sembrava molto migliore di come appare a noi quello presente». Ma il punto non è soltanto questo. Il punto, dice l'autore dei Figli della Mezzanotte cercando di mantenere un tono educato, è che il professor Steiner è fondamentalmente un provinciale. Che dice, infatti: «E' quasi assiomatico che oggi i grandi romanzi vengano dai margini remoti, dall'India, dai Caraibi, dall'America Latina». «Questo è un lamento così incredibilmente eurocentrico», gli risponde lo scrittore anglo-pakistano. «Solo un intellettuale dell'Eu¬ ropa occidentale comporrebbe un'elegia funebre per un'intera forma d'arte sulla base del fatto che la letteratura d'Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Italia non è più la più interessante in assoluto sulla terra». Mentre non è chiaro se gli Stati Uniti, che ultimamente se la cavano benino, appartengano al centro o alla periferia. «Che importanza ha da dove viene il grande romanzo oggi, se continua ad essere vivo?», attacca con passione Rushdie. «La mappa del professor Steiner è una mappa imperiale, e gli imperi d'Europa sono finiti. Il mezzo secolo che Steiner e Naipaul prendono a esempio per il declino del romanzo è il primo mezzo secolo dell'era post-coloniale. Non può essere semplicemente che sta emergendo un nuovo romanzo - un ro- manzo post-coloniale, decentrato, transnazionale, crocevia di lingue e di culture?...». Se prendiamo l'India, che ha una cultura antichissima e lettori di rango, la sola novità è l'emergere di una generazione di scrittori che esprimono il loro talento in lingua inglese. ((Anche il ritratto che il professor Steiner ci dà di un'Europa esausta è, a mio avviso - dice Rushdie -, semplicemente e dimostrabilmente falso». Cita Graham Greene, Beckett, Calvino, la Morante, Nabokov, Grass, Solzenicyn, Kundera, Kis, Bernhard e la Yourcenar, per sottolineare che raramente si sono visti tanti grandi scrittori vivere e lavorare nella stessa epoca. «E questo dimostra che il facile pessimismo della posizione di Steiner e Naipaul non è solo deprimente ma ingiustificato». Se Naipaul non scriverà più narrativa sarà un peccato, «ma l'arte del romanzo sopravviverà di certo anche senza di lui». Rushdie si rallegra piuttosto che il romanzo sia così vivo da aver prestato i suoi panni alla saggistica in libri ammirevoli come L'imperatore di Kapuscinski, Danubio di Magris o Le nozze di Cadmo e Armonia di Calasso. Il problema vero, secondo lui, Steiner lo ha perso di vista completamente. Il problema vero è una crisi di interesse dei lettori. Perché non si seleziona abbastanza, se si pensa che solo negli Stati Uniti si sono pubblicati l'anno scorso cinquemila romanzi («cinquemila!»), dei quali secondo Rushdie è un miracolo se cinquecento erano pubblicabili, cinquanta buoni e cinque ottimi. Tutto questo perché gli editori oggi lasciano decidere al mercato, e confondono i lettori con una massa di spazzatura. «Così comprano un paio di romanzi che hanno ottenuto qualche premio, forse uno o due libri di scrittori di cui riconoscono il nome, e scappano via». Diciamo la verità: riflettere su questa tendenza forse non farebbe male nemmeno alla vecchia Europa. Come dice quest'autore che ancora sa scrivere storie che afferrano un lembo dell'universo, «non è questione di avere troppi romanzi che danno la caccia a troppo pochi lettori, è questione di avere troppi romanzi che li cacciano via, i lettori». Livia Manera Da sinistra il critico George Steiner, e lo strittore Naipaul Salman Rushdie ha difeso i romanzi contemporanei sul «New Yorker»