Un Metternich della pittura
Milano: Castelli al nuovo Pac Milano: Castelli al nuovo Pac Un Metternich della pittura MILANO N ANNO, aveva detto un poco trionfalisticamente l'assessore Daverio. Di anni ne sono passati tre, ma dati i tempi e le pastoie del «Leviatano-Burocrazia» pare già un miracolo: al posto delle feroci ed insensate macerie da bombe mafiose possiamo vedere pezzi di Rauschenberg o frammenti dipinti di fumetti di Lichtenstein, e invece di ruspe e gru le scatole vuote di Judd, o le bistecche giganti di Oldenburg. Rinasce il Pac di Milano. Sarà un caso ma l'ex gallerista Daverio ha scelto per l'occasione di festeggiare un gallerista-mito come Leo Castelli, 88 anni, ancora brillantemente portati come una bianca sciarpetta da frac, triestino di nascita e figlio di un benestante bancario di origini ungheresi, ma cresciuto tra Vienna e l'America, molte lingue a portata di mano e una vita abbastanza stravagante. Questa sorta di Menotti delle gallerie, questo Ambroise Vollard del Novecento, grand seigneur in un mondo di opportunisti, il «Conte», come lo chiamano gli amici americani («perché è sempre vestito con eleganza e non ha mai le unghie sporche») lo si immagina sempre leggero e leggendario come un personaggio da film, avrebbe potuto avere un ruolo nell'Amico americano di Wenders (o forse ce lo ha avuto?). Timido, incerto, per anni esitò ad entrare in commercio, non gli pareva nobile mischiare artisti e denaro. Anzi, uno dei suoi precetti dice: «Bisogna continuare a fare certe cose anche quando non hanno senso dal punto di vista finanziario». Per esempio pagare un quadro all'artista a un prezzo più alto di quello di vendita, perché è l'artista il vero protagonista da soddisfare. A sentire il suo vecchio collaboratore Ivan Kurp, che poi se ne sarebbe andato per occuparsi di quegl'iperealisti che Castelli disprezzava, entrambi erano cosi digiuni di matematica, che un giorno che un cliente volle pagare immediatamente, «finimmo per perdere svariate migliaia di dollari». Spesso incerto, perplesso, altro che intuito, ricordano gli amici. Un dandy amletico: un giorno vende le quote di una sua azienda di maglieria e compra dei De Kooning, lui che pure era abituato ai Kandinskij, a Léger, agli amici cui realisti (cui lo aveva presentato l'amica triestina Léonor Fini). De Kooning si lamenta, «perché non apri finalmente una galleria?». Ma in questo ha ragione la moglie, quella Ileana che diventa ta Sonnabend sarebbe diventata anche lei una gallerista di nome. «Credo proprio che Leo l'aprirà, ma tu non sarai tra i suoi artisti». Questo «Metternich del mercato» ama infatti la sorpresa, il rischio, gioca d'azzardo: compra quando sa che qualcosa gli piacerà in futuro. Visita Rauschenberg nel suo studio, che corre a prendere un po' di ghiaccio su, dal suo vicino pittore. Come si chiama? Jasper Johns, la fortuna della pop art è fatta. Poi verranno i minimal, i concettuali. Il collega Bellamy ha le idue, rischia, ma la sua galleria non fa un soldo. Castelli ascolta 1 quadri («oltre l'occhio ci vuole l'orecchio») e vince, il suo destino è fatto anche di charme, di bella vita, di pura fortuna. «No, non ho nemmeno fiuto» ammette, come racconta Calvin Manifesto della prima grande mostra organizzata da Castelli sulla pop-art
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