ANATI Sulla montagna di DIO

i e e r e at o r i. La grande avventura del paletnologo: ho dimostrato che la Bibbia aveva ragione i e e r e at o r i. La grande avventura del paletnologo: ho dimostrato che la Bibbia aveva ragione Sulla montagna di di DIO RACCONTI D'ESTATE CAPO DI PONTE (BS) DAL NOSTRO INVIATO La cosa più impressionante era 0 vento. «Un vento musicale, che trasportava la polvere e la sabbia del deserto e, strofinandole contro le rocce, produceva vere e proprie melodie. Faceva un grande effetto». Come quando in un film il colpo di scena è preparato dal crescendo della colonna sonora. Invece quella volta non era accaduto niente. Né un'apparizione divina, né uno sconvolgimento della natura, nemmeno un volo d'uccelli. Niente di niente. Eppure quella montagna gli era rimasta nell'anima. Jebel Ideid la chiamavano i beduini, e gli arabisti spiegavano: «monte delle moltitudini», o «della preparazione», mentre una guida tarabin correggeva: «monte delle ricorrenze». Nomi impegn itivi per un massiccio sperduto nel deserto del Negev, una specie di altopiano dal profilo rettangolare, circondato dai precipizi, con due colline prominenti nel centro, la maggiore delle quali non raggiungeva gli 850 metri. Eppure... «Sarà per quel vento forte che a volte solleva bufere di sabbia, a volte regala nitidezze indicibili. 0 per quel panorama infinito che si vede allora, da una parte il deserto del Paran, dall'altra il Sinai centrale, e verso Nord il cratere del Ramon. Un'attrazione inspiegabile, qualcosa che è successo a molti. E' un posto che attira, ha un fascino speciale». Emmanuel Anati ricrea con le parole la «sua» montagna, con l'inflessione straniera contratta in tanti anni di vita all'estero che ne hanno sommerso le radici fiorentine. Dalle finestre del Centro camuno di studi preistorici, che ha fondato e dirige, si vedono le vette della Valcamonica, gallerie d'arte rupestre a cielo aperto. Altre montagne e altri segni graffiti, ma un filo comune. Nel Sinai era approdato a 24 anni, nel '54, quando studiava a Gerusalemme e stava propalando una tesi sulle strutture agricole nel Negev centrale di epoca romano-bizantina. «Un giorno, era l'ora di pranzo, avevo appena finito il mio panino, appoggiato su un masso. Quando mi alzai mi accorsi che ero stato seduto per venti minuti su una serie di incisioni preistoriche. Erano le prime che vedevo. Cercai ancora: ne trovai a decine, con scene molto belle. Così ho cominciato a appassionarmi». Le vicende dell'archeologia, dice Anati, sono come le filastrocche indiane: una cosa tira l'altra tira l'altra tira l'altra, e tutte insieme pongono capo a qualche conclusione. Da quel momento il suo destino di studioso era segnato: la consacrazione come paletnologo di fama internazionale, più di 50 libri, la messa a punto di un metodo di analisi che è stato adottato in tutto il mondo. Ma intanto la montagna dei concerti si era perduta, inghiottita nel deserto roccioso trapunto di rilievi che si assomigliano tutti, fagocitata nell'invariabile tonalità grigia-ocra-rossa, a seconda dell'ora, che tutto uniforma. Non che l'avesse dimenticata, anzi. Nel 1980 era tornato, l'aveva cercata. Ma in mezzo c'era stata la guerra, la penisola del Sinai era passata dagli egiziani agli israeliani che avevano cambiato la toponomastica, i beduini che avevano le loro tende da quelle parti erano scomparsi, e strade non esistevano allora come non esistevano prima Fu soltanto un caso fortunato se un giorno Anati si imbatté in un graffito che aveva fotografato un quarto di secolo prima. Era lei Adesso aveva un nome più banale, si chiamava Har Karkom, «monte dello zafferano», per via del colore che assume in certi momenti. Le perlustrazioni partirono subito. In tutta l'area sono stati catalogati e datati finora un migliaio di siti archeologici e oltre 40 mila incisioni, un immenso repertorio di riflessi concettuali e religiosi e di attività quotidiane delle popolazioni che si sono avvicendate fin dal paleolitico. A Anati e alla sua squadra fu ben presto evidente che l'Har Karkom era una montagna sacra, un luogo di eccezionale importanza dove l'uomo preistorico andava a venerare una potentissima entità celeste. «Ma ci dicevamo: chissà quanti altri monti come questo ci sono nel Sinai». Ancora non sapevano con che cosa veramente avessero a che fare. Accadde nell'83, al quarto anno della campagna. «Era la vigilia di Natale e avevamo chiuso il campo perché alcuni di noi volevano andare alla messa di Betlemme. C'era un sole molto radente, che ritagliava i contorni. Arrivato a valle, la vidi. Una specie di piattaforma con dodici cippi, che affiorava in lontananza. Mi suona un campanello, mi avvicino. Noi portiamo sempre con noi la Bibbia: è un vizio intellettuale, il gusto di verificare le corrispondenze topografiche. Come chi viaggia in India con il libro dei Veda». Si mise a sfogliare febbrilmente, su e giù, senza parlare. Poi chiamò i collaboratori e cominciò a leggere: «E Mose, levatosi di buon mattino, innalzò un altare alle falde del monte e dodici stele per le dodici tribù di Israele...». Era un passo dell'Esodo (24, 4), il libro della Bibbia che racconta degli ebrei fuggiti dal faraone, accampati per un anno nel deserto ai piedi della montagna del decalogo. «La coincidenza era forte. Har Karkom era dunque il misterioso monte che le Scrittine chiamano Sinai? Per convincersi bastò un quarto d'ora. Tutti cominciarono a notare altre corrispondenze, era una gara a chi portava più indizi». Tornarono alla mente, sotto una diversa luce, una serie di graffiti scoperti negli anni precedenti: Inocchio nella roccia», con sette raggi sopra e sette sotto - e qualcuno ricordò di avere letto nella Bibbia dell'«occhio del Signore che ti guarda sette volte in alto e sette volte in basso»; «la verga e il serpente» - che adesso di colpo faceva tornare alla memoria l'episodio del bastone magico che Mose getta fra i piedi del faraone e che si trasforma in serpe; (addirittura) un geoglifo, scoperto due anni prima, in cui sembrava impossibile non avere visto fin da allora qualche cosa come le tavole della legge - «suddivise in dieci quadri», sottolinea Anati, «con una struttura sintattica che riflette esattamente quella dei dieci comandamenti: due rivolti verso l'alto, verso Dio, sei al centro, destinati alla vita sociale, e due in basso, diretti all'individuo». Ma tutte queste potevano essere soltanto coincidenze. «Ci rivolgemmo allora alla topografia. Non è vero che le Scritture abbiano lasciato nel vago l'ubicazione del monte Sinai. Nell'Esodo (17, 9-20) si legge che la montagna di Dio sorge al confine fra la terra di Midian e la terra di Amalek: e la stessa Bibbia infor- ma che i midianiti occupavano i due lati della valle dell'Arava, che congiunge il Mar Morto a Eilat, mentre gli amaleciti erano stanziati fra le alture del Negev centrale e Kadesh Barnea, oggi Ein Kudeirat, a Nord-Ovest di Har Karkom». Così si restringe l'area. Ma non basta ancora. «All'inizio del Deuteronomio», continua Anati, «è scritto che dal monte Sinai a Kadesh Barnea ci vogliono undici giorni di marcia, passando per la via del monte Seir. Il monte Seir, che significa "peloso", si può identificare con certezza nel Jebel Arif el Nake, l'unico luogo della zona in cui sia presente una bassa vegetazione. Lungo questa pista ci sono dieci gruppi di pozzi, alla distanza di 12-16 chilometri uno dall'altro, che è quella massima percorribile in un giorno a piedi. In tutto fa undici giorni: esattamente come dice la Bibbia». I riscontri topografici si accumulano. Ma è più suggestivo ritornare con Anati sulla montagna sacra. Sono racconti di giornate rigidamente scandite che cominciano all'alba e terminano la sera con le discussioni sotto una tenda beduina, isolati dal mondo e dalla civiltà, con il rubinetto più vicino che si trova a 100 chilometri e solo da un paio d'anni un telefono satellitare, da Me usare con parsimonia. E notti nel sacco a pelo, sotto le stelle che qui sembrano enormi e vicine, con i lupi e le volpi del deserto che a volte si aggirano pacificamente nell'accampamento, e le iene che si lamentano in lontananza. Saliamo. «Sull'altopiano abbiamo ritrovato i resti di un tempietto midianita della media età del bronzo (4000-1950 a.C): e in molti passi dell'Esodo si fa riferimento a un MME santuario che Mose aveva visto sulla montagna». Saliamo ancora. «Più in alto, su una delle cime dell'Har Karkom, c'è una grotticella: in quella posizione, è un fatto molto raro in tutta la penisola del Sinai. Ed ecco la voce stessa di Dio (Esodo 33, 21-22) che indica a Mose un "cavo nella roccia" sulla vetta del monte, in cui ripararsi la faccia "mentre passerà la mia gloria"». Tutto intorno, rocce graffite con scene di culto, monoliti antropo- Mar Morto morii di selce con incisi accenni di occhi, naso, bocca. E vaste aree, fino a 20 metri di diametro, completamente ripulite dai massi per accendervi immensi falò, come indicano i segni neri sulla pietra. Anati riprende in mano la Bibbia. «Esodo 19, 18: "E il monte Sinai fumava tutto, perché Yahvé vi era sceso in mezzo al fuoco; e il fumo saliva come quello di una fornace; e tutto il monte fortemente tremava..."». Adesso il volume è di nuovo sul tavolo. «Se qualche anno fa mi avessero detto che mi sarei occupato di archeologia biblica, avrei fatto una grande risata. Invece...». Una cosa tira l'altra. Archeologi e biblisti di tutto il mondo dichiararono guerra all'ipotesi di Anati, che li costringeva a rivedere la localizzazione tradizionale e la cronologia dell'Esodo, TOiiinMi - e a fare i conti con le proprie inerzie mentali. «Qualcuno venne perfino a trovarmi qui in Valcamonica, per chiedermi l'abiura. Mi invitarono a tenere conferenze a Gerusalemme, alla Sorbona, alla Johns Hopkins, alla Ucla: con l'unico scopo di attaccarmi. Magari mi avessero convinto... Avrei risolto uno dei grandi problemi della mia vita, ho già tante ricerche da seguire... Però ogni volta le obiezioni dei miei contestatori avevano l'effetto di convincermi che forse un po' di ragione l'avevo. Costretto a questa battaglia ho dovuto agguerrirmi, studiare i testi sacri, l'esegesi biblica». La tradizione identifica la montagna del decalogo nel ben più imponente (2285 metri) Jebel Musa, «monte di Mose», che si trova nel Sinai 200 chilometri più a Sud di Har Karkom, vicmo al monastero di Santa Caterina. ((Anch'io», dice Anati, «avevo sempre tenuto per buona questa ubicazione. Li realtà si tratta di un'invenzione che risale al IV secolo, quando gli imperatori bizantini inviarono spedizioni alla ricerca del luogo santo promettendo onori e ricchezze: per non deludere le attese, vemie scelta una delle vette più elevate, il cui profilo ricorda quello dell'Olimpo. Ma perché Mose avrebbe dovuto obbligare il suo popolo a una lunga deviazione verso Sud, quando Yahvé aveva promesso a Israele di trarlo in salvo dall'Egitto per condurlo verso la terra di Canaan? Incredibile come l'errore si sia protratto fino a oggi, e questo nonostante il Jebel Musa non abbia mai restituito segni di presenza umana precedente l'epoca bizantina». Ma, obiettano i tradizionalisti, Har Karkom ha il difetto opposto. Prima di un moderato reinsediamento Li età bizantina e islamica, in tutta l'area le ultime tracce dell'uomo si fermano di colpo intorno al 1950 a.C, quando le mutate condizioni climatiche la rendono inabitabile. Come conciliare con questo dato la testimonianza scritturale [Esodo 1, 11) secondo cui gli ebrei, prima di lasciare l'Egitto, costruirono «la città-magazzmo di Ramses» (PiRamses, sul delta del Nilo) che risale agli inizi del XIII secolo? «In effetti», fa notare Anati, «quella città mostra i segni di varie ricostruzioni, e la frase della Bibbia va intesa non come un'indicazione cronologica, ma piuttosto geografica». Ossia: (un tempo) gli ebrei (ri) costruirono la città che in seguito si sarebbe chiamata Ramses. «E poi», incalza, «non è strano che nessuno dei testi egiziani dell'epoca ramesside faccia riferimento ai fatti dell'Esodo? Punti di contatto molto significativi si trovano invece nei testi del Regno Antico. Fonti letterarie e dati archeologici coincidono: la Bibbia ci narra di una vita pulsante nel deserto che rispecchia la realtà del III millennio, di città - Ai, Arad, Kadesh Barnea - che nel II millennio non esistevano più. Il passaggio di Mose è coinciso con uno degli ultimi episodi di impiego cultuale di Har Karkom». Graffiti, vestigia, paesaggio: tutto torna, sulla «montagna delle moltitudini». E tutto conferma il racconto delle Scritture. «Le incisioni rupestri di Har Karkom costituiscono l'unica testimonianza archeologica risalente all'antica età del bronzo con precisi riscontri nella narrazione biblica, che come molte altre narrazioni mitiche è la "magnificazione" di elementi storici trasformati dalla fantasia popolare. Ed è la Bibbia, redatta in un'epoca posteriore, che si ispira a mitemi come quello dell'occhio nella roccia e ai relativi sviluppi, non viceversa». Il tono di Anati è pacato, come quello di chi non deve più convincere nessuno. Ormai le polemiche si sono un po' sopite e molti cominciano a riconoscere la fondatezza delle sue tesi. Tanto che la voce si è sparsa. «Da qualche anno Har Karkom è meta di pellegrinaggi. Soprattutto di battisti del Sud degli Stati Uniti, che comprano i miei libri n; chiesa. Mi considerano una specie di guru. E durante la Pasqua del '95 ho assistito a un fenomeno non so se di estasi o di isterismo collettivo, con centinaia di tedeschi che si sono messi a piangere e a baciare la terra». Una nuova forma di devozione popolare che toglierà pellegrini e turismo a Santa Caterina? I venerandi monaci ortodossi che custodiscono il roveto non si sentono defraudati. Anati li ha visti in un bel documentario della tv svizzera dedicato all'Har Karkom. Con la saggezza levigata dalla sabbia del deserto e dai secoli di solitudine, hanno sorriso: «Ognuno il suo monte Sinai ce l'ha nel cuore». Maurizio Assalto «Il vero monte del decalogo non è quello nel Sud del Sinai. Io l'ho ritrovato a 200 chilometri di distanza nel deserto del Negev: è l'Har Karkom, un luogo sacro fin dal paleoliti Tutte le corrispondenze con il libro dell'Esodo, i resti dell'altare costruito da Mose «Gli studiosi mi hanno contestato duramente, e adesso qualcuno mi scambia per un guru» Un vento musicale», misteriosi segni incisi nella roccia, le tracce di immensi falò accesi dall'uomo preistorico per venerare una potente entità celeste «Il vero monte del decalogo non è quello nel Sud del Sinai. Io l'ho itrovato a 200 chilometri di distanza nel deserto del Negev: è l'Har Karkom, un luogo sacro fin dal paleoliti p Mar Mediterraneo GERUSALEMME Mar Morto TOiiinMi - La penisola del Sinai, con il jebel Musa a Sud e più a Nord l'Har Karkom Nella foto a destra il graffito con «la verga e il serpente»