Il giustiziere Tonino contro le lobbies di Paolo Guzzanti

Il giustiziere Tonino contro le lobbies F FUORI DAL CORO Il giustiziere Tonino contro le lobbies RA ovvio che non appena Antonio Di Pietro avesse dichiarato l'intenzione di promuovere un controllo sui mandarini della pubblica amministrazione, il ceto politico gli sarebbe saltato alla gola. E così è accaduto, come è nella logica. Il ceto politico fa soltanto il suo mestiere: va là dove lo porta il consenso. Viceversa Di Pietro, sia che indossi la toga che la giacca borghese da ministro, va là dove lo porta un suo istinto aggressivo e sospettoso: lo stesso che gli dette la forza di portare alla gogna e alla vergogna la nomenklatura del vecchio mondo politico. Allora era facile applaudirlo. Ma adesso? Non appena il radar di Di Pietro ha allargato lo spettro del suo bersaglio puntando sulla pubblica amministrazione e le possibili malefatte perpetrate da alcuni suoi esponenti, ecco che di colpo il ceto politico produce anticorpi per agglutinare l'ex procuratore della Repubblica, separarlo dal contesto, isolarlo e alla fine espellerlo. E nessuno nota con allarme la circostanza. L'aspetto rudemente politico del rigetto è emerso nello scontro fra Di Pietro e Bertinotti. Il primo dichiarando di non accettare condizionamenti, il secondo rispondendogli che la politica ha anche i suoi condizionamenti e che se ti sta bene è così, altrimenti quella è la porta. Ma la vera materia del contendere va forse cercata su un altro piano: quello della legittimazione politica di Mani Pulite, che l'uomo Di Pietro rappresenta con il suo personale copyright, qualsiasi giacca indossi, da magistrato o da ministro. Quella legittimazione si reggeva e si regge su un postulato: la Grande Corruzione del passato regime era espressione unica e diretta dei Grandi Corruttori. Una volta fatti fuori costoro, non può dunque più esistere una grande corruzione, ma soltanto eventuali e marginali scorie. Chi sostenesse invece che la corruzione esiste e persiste al di là dei grandi corruttori, negherebbe con ciò il cardine della rivoluzione I stessa. E Di Pietro ha fatto I proprio questo: ha intro¬ dotto il dubbio sull'autonomia e la potenza della corruzione, proponendo di creare di fatto una nuova magistratura di 350 ispettori, simile a quella segreta usata dal Consiglio dei Dieci nella Serenissima repubblica veneta: un'idea efficace ma autoritaria. Politicamente insostenibile. E infatti il ceto politico l'ha presa di malagrazia e ha opposto una cortina di ohibò accompagnati da una di gesti repulsivi. Alla lunga questi gesti possono diventare contrazioni espulsive. La cosiddetta rivoluzione di velluto nata nel 1992 poggia tutta su quel postulato: la buona società fu un tempo angariata e corrotta da una banda di grassatori, poi eroicamente smascherati, cacciati e sostituiti. Chi volesse contrastare questa verità si rivelerebbe un elemento infido e nemico. Se poi ad osare tanto fosse proprio colui che dette corpo alla Storia ritenendo con arroganza di potersi sostituire ad essa, peggio per lui: sarà esposto alla corrosione del discredito, rapidamente delegittimato, quindi abbandonato al suo infelice destino. Questo è, secondo noi, il vero campo di battaglia. Inoltre, ideologie a parte, il personale politico nel suo complesso non vuole saperne di scontri frontali con lobbies ultrapotenti in cui hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare. Dunque Di Pietro fa il suo mestiere di sempre, il giustiziere duro e impolitico; i politici fanno il loro mestiere di sempre, elemosinieri del consenso nel migliore dei casi. Resta da vedere da che parte si schiererà, se ha ancora voglia e voce per farlo, quella società civile un tempo tanto vibrante e oggi così distratta. Per ora, fragorosamente, tace. Paolo Guzzanti nti |

Persone citate: Antonio Di Pietro, Bertinotti, Di Pietro, Grandi Corruttori