Mino-Ciriaco guerra infinita sulla «rinascita» del centro

VENTO Mino-Ciriaco, guerra infinita sulla «rinascita» del centro VENTO DI DISGELO mm CASALMAGGIORE ■ EMPO di sbrinamento davH vero democristiano: due anni. Quando alle 21,15 Ciriaco De Mita entra nella calca del Teatro Zenith, uno spiritoso fa: «Onorevole, le presento Mino Martinazzoli». Ciriaco ride. Mino fuma. Abbraccio pieno di flash. Non si parlano dal febbraio del 1994, quando Mino segretario del neonato ppi - rimincio alla propria candidatura e impedì quella di Ciriaco. Che assai se ne adontò: «E' un impazzimento», disse. E Mino gli rispose con l'aritmetica dei senza sorriso: «Se ti candido al Suri, perdo un milione di voti al Nord». Sul palco non si siedono vicini. Il tema è vasto e (perciò) generico, più o meno: il ruolo del partito popolare nel misterioso Futuro. Ma il colpo d'occhio vale la serata, dato che sulla terza sedia si accomoda il signor Cisl, Sergio D'Antoni, al solito pimpante e strappa-applausi («il cattolicesimo democratico sarà la seconda gamba dell'Ulivo: dobbiamo volerlo e dobbiamo crederci»). Perciò ecco cosa si vede: due segretari passati e il segretario futuro. Martinazzoli ha la solita faccia piena di pioggia. Quella di Ciriaco è liscia e fiammante come la nera Mercedes da cui è sceso. Il primo si muove con la lentezza di una passeggiata in piazza: «Sono qui per dare una mano all'Ulivo. Permesso». L'altro gira gli occhi come un turista: «In effetti nella famosa Padania non ci vengo spesso...». Raccontano ci siano state due intere diplomazie al lavoro per realizzare l'evento dell'incontro - salone pieno, 1500 persone, ma senza bandiere, cori, lacrime che va in scena in questo paesone del Cremonese, dove volano zanzare come fossero ricordi: pungendo. Così dal palco, Martinazzoli dirà: «No, non mi pento della scelta di allora che escluse De Mita». E Ciriaco seppellirà il proprio disappunto alla solita maniera: ragionando. E dilagando. Già al primo giro tiene la palla per 21 minuti. Al secondo addirittura per 29. Parla di alternanza («l'abbiamo inventata noi»), di federalismo («è già nella matrice popolare»), di riforme istituzionali («il presidenzialismo? Per carità. Due anni fa sarebbe stato eletto Berlusconi e non mi pare che l'Italia avesse questo bisogno»), della Destra («è senza cultura e senza valori»), di Adornato e Liberal («devo essermi distratto, sono loro i liberali?»), di Mario Segni («ho letto le memorie di questo strano personaggio, spero siano le ultime»). Strappa un solo applauso quando dice che «con i nostri 60 parlamentari si può fare la rivoluzione». A disboscare i molti rampicanti verbali, di De Mita si capisce questo: è soddisfatto della legge elettorale, dell'esperienza della Bicamerale, della de «che non ha fallito», delle politiche di coalizione «che continuano a essere la strada maestra» tanto è vero che oggi, con Prodi e l'Ulivo «il problema della governabilità è risolto». Martinazzoli parla proprio un'altra lingua: «A me pare che le idee ricevute, cioè la nostra cultura politica, non ci servano più a interpretare la realtà. Si tratta di capire se il cattolicesimo politico, in Italia, abbia un futuro o si vada consumando, anche a dispetto della nostra fedeltà. Non è più tempo di de, né di rimettere insieme segmenti di città sommerse, ma di sapere in qual modo ottemperare a quella fedeltà». E ancora: «Va bene, non rimuoviamo la de, ma non rimuoviamo neppure le ragioni della sua decadenza». Curioso che in questo rito del rivedersi siano escluse proprio loro: le ragioni che hanno dissolto un partito - magari con nobiltà ancorato al Muro di Berlino e all'inchiostro di don Sturzo e alle ragioni del riformismo - che infine si sono sbriciolate non per via politica, ma per quella giudiziaria. Un solo accenno (e letterario) di Martinazzoli in conclusione per incrementarne l'enfasi: «Non mi interessano né le meschinità, né i rancori, né i desideri di rivalsa. E questa serata, guardando la platea, e senza sentirmi mi reduce, so che il nostro seme non è diventato sterile. Dobbiamo coltivarlo con lungimiranza e pazienza, sapendo che abbiamo una buona terra che lo riscalda e lo tutela perché anche le sofferenze di questi anni ci hanno arricchito». Le sofferenze. Che a guardare D'Antoni proprio non si vedono. Lui parla già da capopartito: «Il nostro problema è riunire il riformismo cattolico e quello laico. Ho letto che D'Alema dice: il mio compito è rafforzare la sinistra. Benissimo. Il nostro compito dovrà essere: rafforzare il partito popolare». Perciò: «Io propongo una conferenza programmatica prima del congresso. Propongo di dire con chiarezza cosa pensiamo delle riforme istituzionali. Propongo di mettere in campo idee e progetti forti per l'Europa, l'occupazione, il debito pubblico, la scuola, la famiglia». Scandisce: «Con una politica forte torneremo forti». E dunque esserci. Lottare. Uscire «dall'angoscia della minorità». Cosa che Martinazzoli ripeterà con più disincanto: «L'ambizione di essere pari non si supplisce con l'angoscia di essere dispari». E pacatamente: «Non è colpa del pds se nell'alleanza è più forte di noi. Ha i numeri e li rivendica. Il nostro compito è che Prodi vinca la sua scommessa di governo, altrimenti anche noi perderemo la nostra. In questa sorte comune si gioca il futuro dei nostri valori e della nostra politica». Così, all'una e mezzo di notte, il rito si è compiuto. Ciriaco esce soddisfatto. Gli dicono: «Sei sempre uguale, sai?». Lui lo prende come un complimento: «In mezzo a tanti che cambiano - dice - ci sono persone che si conservano». D'Antoni passa tra grandi pacche. E Mino fende l'affetto degli abbracci fino a che uno gli chiede: ma il motivo di questo incontro? Allora si volta e fa: «Me lo chiedo anch'io». Pino Corrias Martinazzoli: non è più tempo di far risorgere la de Cerchiamo nuove identità De Mita: non abbiamo fallito ma indicato la via maestra

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