Euforia damare

ITALIA ANNO ZERO LE VACANZE DEL DO PO GII ERRA. Donne, musica: tra le macerie di Milano riesplode la febbre di vivere Euforia damare ITALIA ANNO ZERO ESTATE dell'anno zero, il 1945. Estate di una pace neonata. E' appena stata decisa la fine del coprifuoco: notti libere per i milanesi dal 6 giugno anche se le esecuzioni sommarie, i «repulisti», le vendette private ammantate di ideologia riempiono ancora di cadaveri i prati della periferia, lungo la massicciata della ferrovia verso Lambrate. E' già un'estate caldissima. Diventerà torrida e finirà per aggravare le nostre miserie, bruciando i raccolti. Che importa? Meglio del gelido, ultimo inverno di guerra, con i tedeschi, le Brigate Nere e la Muti alla porta di casa. E' scoppiata la pace e si può sopportare la fame, la cinghia tirata, il razionamento. Verranno delusione e rabbia. Ma, per ora, è tempo di febbrile euforia. Milano balla. Milano canta Hosamunda, alza la gonna danzando la milleriana «Chattanuga chu-chu», Milano si struscia abbandonandosi ai languori di Noche de ronda, mentre la Chiesa si affretta a ricordare a parroci e prevosti i limiti dei «baci, abbracci e toccamenti»: una tabella di carezze ammesse o demonizzate per il computo in confessionale dei peccati veniali e mortali. C'è nell'aria una gran voglia di amore, di sesso a recuperare anni di forzate solitudini e di frigidità da terrore, anche alla faccia di una costante debolezza perché ai conteggi dello stomaco mancano ogni giorno più di mille calorie. Il reddito è dimezzato rispetto all'anteguerra: 26 mila lire all'anno. Il costo della vita è salito a guglia: 25, 30 volte di più. La città è un grumo di macerie, là dove i bombardamenti hanno più duramente pestato, il centro storico, via Molino delle Armi, porta Ticinese, corso Garibaldi e la cintura industriale: 8 mila case sbriciolate, 400 mila senza tetto. Si scoppia d'ottimismo E' proprio l'anno zero, ma basta pochissimo a rasserenarlo, perché la tragedia del sangue è alle spalle. Si scoppia d'ottimismo se gli Alleati annunciano che verrà distribuita una razione di carne. Sublime felicità, anche se a caro prezzo: 380 lire per un chilo di manzo, la paga giornaliera di un operaio. Si esulta alla notizia che i 250 grammi di pane della razione quotidiana non saranno più insipidi, perché è finalmente arrivata una derrata di sale. In quell'estate del 1945, la citta si sbronza di libertà, di pace, di estenuanti notti di ballo mischiando il boogie-woogie alle padane mazurche, a uno slow che canta l'amore perduto: «Sola me ne vo per la città/ passo fra la folla che non sa/ che non vede il mio dolore...». Di dolore è ancora carica la gente che piroetta nello swing di Natalino Otto e della fisarmonica di Gorni Kramer. Ogni giorno, la radio manda in onda appelli: padri, madri, mogli che implorano notizie dei loro figli, dei loro mariti. La Domenica del Corriere pubblica colonne e colonne di piccole fotografie: sono i dispersi del «Chi l'ha visto?». Alla Stazione Centrale, le ridotte riportano a casa le larve scampate ai lager, ai campi di lavoro ed è di abissale sofferenza l'assedio dei parenti di chi non torna: domande strazianti, passaggi di fotografie, cartelli issati sopra le teste con il nome, il cognome, il grado, il battaglione, il reggimento di ragazzi naufragati chissà dove nel turpe mare della guerra. Ma c'è un grande, immenso bisogno di dimenticare, di ritrovarsi come collettività, come appartenenti a un senti- mento comunitario della città dopo essere stati costretti a viverla, Milano, nell'angoscia dei bombardamenti, della Gestapo, nel sospetto delle spiate di questo o quell'irriducibile mussolinista. Ogni sera, ogni notte si balla fra le macerie, negli spiazzi aperti dalle bombe là dove più fitto era l'intrico delle viuzze ottocentesche e più devastante è stata la morte dal cielo, la «morte che insudicia» come aveva scritto Alberto Savinio. Si balla in strada, nei cortili dei caseggiati popolari, delle case di ringhiera. Si balla in canottiera, in vestitucci di cotonina rivoltata. Si balla fra donne, se scarseggiano i cavalieri. Anche le racchie sembrano bellissime: miracoloso effetto della pace che ha anche un altro confortante risvolto, la ridente generosità di baci, di struggenti pomiciate. «Di andare in vacanza, manco parlarne - ricorda lo scrittore Emilio Tadini che, allora, non era ancora ventenne -. E non perché fosse, come in realtà era, praticamente impossibile mettersi in viaggio in quell'Italia che non aveva più ferrovie, né strade, né ponti. La festa, come si direbbe oggi, era a Milano, era nelle città. Sarebbe stata una follia rinunciare a quel clima. La riconquistata libertà metteva dentro una straordinaria eccitazione. I miei avevano una casa in Brianza, dove avevo vissuto da sfollato nei mesi più neri. Quel- l'estate, non ci misi piede. Meglio i balli, le notti milanesi. La voglia di rinascila era tanto clamorosa da rendere Milano smagliante. Solo l'estate dopo, mi decisi a una vera vacanza. Insieme a Dario Fo, andai a Parigi, alberghetti malfamati, voracità culturali e timidezze da provinciali. Dario, allora, faceva il pittore. Io volevo diventare scrittore. Dovemmo farci vicendevolmente coraggio per entrare al Deux Magots». Partire per il mare, per la montagna è un'impresa da pio¬ niere della «nuova frontiera». Il 60 per cento delle strade statali e il 20 cento delle strade locali sono impraticabili. Ottomila ponti sono stati sbriciolati dalle bombe. La rete ferroviaria è annientata: distrutti il 50 percento del materiale rotabile, il 60 per cento delle locomotive, il 90 per cento delle carrozze viaggiatori, l'80 per cento delle linee elettriche. Venticinque chilometri di gallerie sono fuori uso. In agosto, viene in qualche modo ripristinata la Torino- Milano-Roma, ma via Pisa perché i binari appenninici sono stati spazzati lungo la Linea Gotica. Trentasei ore di percorso. Il possibile conforto del vagone letto è proibitivo: 1300 lire, un grosso salasso per chi mediamente non arriva a guadagnare 30 mila lire l'anno. Viaggiare è una follia. Lo fanno, ma da privilegiati, su due Aprilia, Luisa Cederna, la più giovane sorella di Camilla, e un gruppo legato dall'amicizia e dalla militanza nelle file della Resistenza, Edoardo Visconti di Modrone, Vanna Rota, Guglielmo Mozzoni, Stefano Porta e Pino Bergamasco, Augusto De Laurentis, stato maggiore e staffette della Franchi di Edgardo Sogno. All'Elba, li aspetta Nello Santi che diventerà un intelligente quanto improvvido produttore cinematografico. «Erano cinque anni che non vedevamo il mare - racconta Luisa Cederna -. L'avventura fu arrivarci, all'Elba. Il passo del Bracco era feudo del brigantaggio. L'Aurelia era un gniviera. Dopo Viareggio, cominciarono i posti di blocco per via di Tombolo, la pineta che era diventata la Sodoma e Gomorra dei disertori di colore e dove Giancarlo Fusco, che sarà compagno di lavoro all'Europeo di mia sorella Camilla, un formidabile giornalista, organizzava balere e incontri di boxe. Attraversammo una Livorno rasa al suolo. L'Elba era poverissima e radiosa. Il nostro albergo fu un barcone da pesca». Alassio, Portofino, Santa Margherita, Forte dei Marmi e Viareggio, la cui spiaggia è stata bonificata da 100 mila mine, aspettano invano nutriti manipoli di vacanzieri da Milano, da Torino. E' un terno al lotto arrivarci e quattrini ne corrono pochi, perché non è ancora tempo di nuovi ricchi e i pescecani della borsa nera preferiscono, per ora, mimetizzarsi. Niente mare, allora. Quell'estate 1945, Milano operaia e impiegatizia può scegliere fra il limaccioso Idroscalo, il pantanoso Canale Villoresi, le rogge sorgive che sanno di amido. Si nuota a bocca serrata per prudenza igienica e cosi nuota ancora Lucia Bosè che, sedicenne, era di quelle rogge la reginetta prima di esserlo, nel 1947, della bellezza italiana. Vanno le biciclette verso quelle «riviere», in uno svolazzare di gonnelle cucite in casa e generose di scorci perché anche questa prodigalità carnale è un ribellarsi alle mestizie del passato. Arrostite dal cementizio sole della periferia, le ragazze irradiano mille calori nel ballo che ossessivamente e globalmente cadenza tutte le sere della prima estate di pace, sere senza oscuramento, senza le sirene degli allarmi aerei: sere di luna a rischiarare strade, cortili, improvvisate balere, una luna non più maledetta perché non c'è più l'incubo che ne approfittino i bombardieri, gli Halifax, i Lancaster, i Wellington. Nell'aria notturna di una città che riesplode alla vita, dopo la lunga guerra e i venti mesi delle deportazioni, delle torture a Villa Triste, si mischiano le inedite improvvisazioni del jazz, il melodico all'italiana, ma ormai swingato, delle orchestre radiotrasmesse di Barzizza, Angelini, Segurini, Zeme, i tromboni di Tommy Dorsey, i primi echi delle Vie en rose, della viscerale voce di Edith Piaf e gli ultimi di Jean Sablon che aveva illanguidito i cuori degli Anni Trenta con lo strazio di quel Vous qui passez sans me voir. L'allegria dei grammofoni Suonano i grammofoni a manovella, spesso rendendo baritonale l'allegria latinoamericana di Carmen Miranda e trasformando, nel rallentare della molla, i sincopati di Glenn Miller in lentissimi da mattonella. Suonano le orchestrine. Ma basta anche un duo di chitarra e fisarmonica perché un intero condominio dia forme alle scivolate geometrie del liscio figurato. Si balla e riballa a cielo aperto e sul selciato. Se gira qualche soldo, c'è il dancing «Sirenella» in via Rovello, c'è il «Casanova» in corso Buenos Aires, c'è il «Meridiana». E' permesso fare quattro salti anche in Galleria che i bombardamenti dell'agosto 1943 hanno scoperchiato: una liscia pista di marmo, da vanti al caffè «Grand'Italia» dove canta Gino Franzi, il fine dicitore dello «Scettico Blu», del «Cosa mi importa se il mondo mi rese glacial», ormai tutto sibilante di protesi dentarie. E' la galleria una ribalta della «kermesse» di danza che, il 14 luglio, giorno rivoluzionario, data emblematica per chi soffia perché non si spenga il «vento del Nord», istituzionalizza la febbre di quella prima estate di pace, quella voglia di inciuchirsi di libertà ballando. L'ha voluta un critico drammatico che sta per diventare un prodigioso organizzatore teatrale, Paolo Grassi: sette orchestre riversano samba, conga, valzer, boogie-woogie, slow nell'Ottagono della Galleria, all'Arena, all'Arco della Pace, al Cannone del Castello. Dalla Bicocca all'Ortica, dalla Bovisa all'estrema periferia di Baggio, la città è attraversata da camion che fanno da itinerante pedana a bande, a orchestrine di fisarmoniche, a chitarre, violini, tambureggianti batterie. Anche gli strumentisti della Scala, divisi in piccoli gruppi, vanno qua e là a suonare Strauss. Milano, tutta Milano ballò, si lasciò andare alla musica e alle sue complicità d'amore. Mezzo secolo fa. Era una torrida, ma tenerissima notte. Guido Vergarli Le vendette insanguinano ancora le periferie ma l'abolizione del coprifuoco regala la notte ai milanesi Si canta Rosamunda, ci si abbandona ai languori di «Noche de Ronda», ci si scatena col boogie-woogie Arriva la carne, anche se costa come una giornata di lavoro; il pane ritrova il sapore del sale Partire per il mare o per la montagna è ancora una follia con le ferrovie distrutte: i ricordi di Tadini e di Luisa Cederna Ballo in periferia; accanto al titolo una ballerina del varietà; sotto le «vacanze» all'Idroscalo. vera grande alternativa alle località marittime difficilmente raggiungibili con strade e ferrovie ancora distrutte dai bombardamenti