Il tradimento del Quinto Continente

Senza lanciare proclami, il governo blocca i nuovi arrivi dall'Asia e dall'Europa dell'Est Senza lanciare proclami, il governo blocca i nuovi arrivi dall'Asia e dall'Europa dell'Est Il tradimento del Quinto Continente L'Australia in crisi si chiude agli immigrati L'ELDORADO PERDUTO SSYDNEY 0N0 in albergo sommerso dalle carte, dagli appunti e dalle fotografie scattate con la mente. Più, quelle di parole raccolte sui quaderni. Così, alla fine del viaggio mi trovo fra le mani materiale per un ritratto estemporaneo: quello del pianeta Australia dalla terra amarissima, ricca di eccessi, doni grandiosi e terribili trappole per l'umanità. E' infatti l'umanità di questo pianeta la protagonista di molti drammi. Drammi in parte comuni a tutti i Paesi che accolgono grandi emigrazioni, spostamenti di popoli. L'Australia ha soltanto due altri Paesi al mondo con cui confrontarsi sotto questo aspetto: il Brasile e gli Stati Uniti. Due Paesi che dosano l'immigrazione con leggi e flussi molto diversi nel tempo e nelle circostanze, ma che hanno sempre saputo e accettato come un punto di forza il fatto che l'emigrazione fosse la ricchezza umana, e che di conseguenza la società che ne deriva non può che essere multietnica, molte religioni, molti colori di pelle, molte lingue, usi e costumi, sotto una legge e una bandiera comune. Era stato così finora anche in Australia, ma qualcosa sta radicalmente cambiando proprio in queste settimane, anche se si tratta di un processo cominciato quasi dieci anni fa. Fino al 1989 questo Paese ha accolto gente di ogni luogo considerando tutte le braccia buone, sia per l'aratro che per il fucile, perché fino a quell'anno il mondo, e anche il mondo del Pacifico, era in bilico sulla guerra fredda. Ma dal 1989 il panorama del mondo è cambiato, il rischio della guerra è svanito ed è crollata l'intera filosofia delle braccia e del sudore della fronte. Intanto, l'opinione pubblica trova più interessante, più politically correct, la questione degli aborigeni. C'è molta ecologia, molta filosofia del parco naturale e del buon selvaggio da salvare. Il buon selvaggio d'altra parte è disperato, si lascia morire, non vuole farsi integrare, rilutta, recalcitra e spesso si suicida in carcere chiamando i fulmini di Amnesty International. Dunque la spettacolare, straziante, bellissima, diversa e traumatizzante Australia, con i suoi deserti, le sue foreste, la sua fauna unica nel creato e la sua zona centrale dichiarata zona vergine vietata agli occhi di chiunque, con i suoi panorami marziani e da paradiso terrestre, i suoi grattacieli degni di Chicago, le banche come la «Commonwealth Bank of Australia» concepite come Partenoni del credito e del risparmio, l'Australia della pelle nera e della pelle bianca, del canguro e del boomerang, dell'elettronica e della ricerca scientifica soffre una terribile crisi d'indentità. Non perché gli austrialiani non sappiano più chi sono. Ma per il contrario: finita la guerra fredda improvvisamente si accorgono che di tutta quella poltiglia asiatica analfabeta, prolifica e senza mestiere, non hanno assolutamente bisogno. La gente lo dichiara quasi costernata in amabili conversazioni: gli emigrati formano conventicole - dicono -, parlano lingue che solo loro conoscono, si affiliano in cosche mafiose, prolificano come conigli, si portano dietro carrettate di parenti e non vogliono saperne di dissodare le terre incolte preferendo formare sudicie bidonvilles a ridosso delle grandi città. Che se ne stiano a casa loro. E il governo australiano, cercando di non dare troppo nell'occhio, ha cominciato un'operazione che è pur sempre una forma preventiva di discreta pulizia etnica. Certo, non corrono rischi i nostri emigranti con la valigia di cartone, che ormai sono parte integrante della società australiana. Ma non sono esenti da rischi gli europei dell'Est che premono a ondate, o i vietnamiti, i cambogiani, i cinesi e tutti gli altri profughi del Sud-Est asiatico che arrivano pronti a produrre servizi umili, ma anche repliche delle Triadi, delle mafie e delle piraterie di ogni porto, con fraternite di mutuo soccorso e de linquenza: rapimenti di bambini cinesi, assassinii, scontri a fuoco con la polizia, retate: di questo è fatta la cronaca nera delle grandi e piccole città australiane. L'opinione pubblica è nella sua fascia media e dominante conser vatrice, ricca di terra e di bestia me, manda i figli in scuole costose, compra case, fa investimenti im mobiliari, gioca in Borsa, non sa e non vuole sapere nulla di politica In questo momento quell'opinione pubblica è per esempio molto impegnata sulla questione dei fucili a pompa, che appassiona e interessa tutti e che si può così riassumere: poiché qui, come nel Far West, è solida la tradizione del contadino e dell'allevatore armato, succede che il governo abbia deciso di porre dei freni e dei limiti al possesso e all'uso dei fucili. Con la scusa del coccodrillo, del coniglio, delle bestie feroci, dei capi di bestiame malati da abbattere, milioni di persone hanno in casa fucili a ripetizione automatici che in parole povere sono mitra e armi da guerra. Il governo ha quindi proposto che tutti i possessori di fucili automatici vadano a farsi fare una certa modifica ai caricatori, in modo che i fucili possano sparare soltanto due colpi per volta. E quindi è nato un vespaio: è giusto o no imporre questo congegno hmitativo? E' lecito o no farne montare un modello rimovibile? Intanto una commissione governativa ha decretato di far produrre il microchip che bloccherà i televisori quando compaiono scene di violenza, o scene erotiche o comunque scene che i genitori non vogliono far vedere ai figli. Caricatori per fucili a pompa e chips per televisori violenti, sono le grandi questioni all'ordine del giorno più popolare. Il mondo intellettuale discute anche dell'emigrazione, ma su tutti i temi avanza quello massimo fra i massimi, la presenza australiana alle Olimpiadi di Atlanta. Il governo è molto sensibile agli umori collettivi e all'opinione pubblica: anche sui fucili e i caricatori si susseguono i sondaggi e risulta che l'australiano medio preferisce un buon fucile a un vicino di casa emigrato e sgradito. E così gli australiani originari, ma anche gli emigrati di seconda e terza generazione, pian piano hanno riesumato una vecchia espressione soppressa alla fine dell'ultima guerra. E' un'espressione razziale: «Anglo-Celt». E serve a identificare la qualità doc dei veri coloni di madrepatria britannica (cioè gli Anglo), con estensione a gallesi, scozzesi e irlandesi, che sono i Celt. La parola non ha confini religiosi: comprende cattolici e riformati. • La parola è tornata di moda e proprio adesso che l'Australia è turbata. Turbata perché in maniera silenziosa e forse un po' subdola il governo sta facendo approvare una legislazione che, un taglio qui e un divieto là, si vede benissimo dove va a parare: in una chiusura progressiva delle frontiere dell'emigrazione. I primi a piangere ovviamente sono gli asiatici in attesa di veder arrivare le famiglie. Ma i secondi sono gli stessi conservatori australiani, turbati per il fatto che il governo Howard, in cerca di consenso, trasformi sbrigativamente i loro desideri inconfessabili, e tuttavia assai ben confessati nei sondaggi, in altrettanti decreti legge e progetti a breve scadenza. La terza a piangere è la sinistra liberale, turbata a sua volta sulle colonne di «The Australian» o del «Sydney Morning Herald». Sono tutti molto compunti, imbarazzati, giurano tutti che non è colpa loro, che un rimedio bisognerà pur trovarlo, e come diversivo tutti confluiscono sull'eterna questione del buon selvaggio australe, delle sue difficoltà e del suo grido di do- lore di fronte al genocidio. Che senso ha in prospettiva tutto ciò? Secondo quanto abbiamo capito, questa rivoluzione in corso ha senso perché completa e accompagna un processo di chiusura nei confronti del Vecchio Mondo e di progressiva costante dilatazione nei confronti dell'Oriente nipponico, con attenzione al mondo cinese. La parola d'ordine non detta, ma pensata da tutti è: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Gli italiani ovviamente sono dentro. Le restrizioni non li riguardane. Del resto la grande emigrazione italiana verso l'Australia è finita da un pezzo e i nostri connazionali si sono piazzati nei ranghi intermedi e medio-alti del commercio, della ristorazione e delle attività minori. Diversamente però da quanto accade in Argentina, in Brasile e negli Stati Uniti, dove l'emigrazione italiana ha un carattere dominante e visibile, qui si tratta di bravi lavoratori provenienti quasi tutti dal Sud e in particolare dalla Calabria, che però non hanno mai raggiunto, salvo eccezioni, livelli alti nella classe sociale e politica. Ho cercato di stabilire la frequenza, sulle pagine dei giornali, con cui compaiono cognomi italia- ni. Beh, sarò slato sfortunato, forse non era la settimana giusta, ma non ne ho trovato mai uno. Né fra i buoni né fra i cattivi. Altro discorso se in una metropoli come Sydney cerchi nomi italiani sulle insegne dei ristoranti: si chiamano Machiavelli, Tre Scalini, Tutti Fratti, L'Avventura, Fiorentino, Ecco e cito soltanto i primi che mi capitano facendo torto a tutti gli altri, per notare che l'Italia batte ad esempio la Francia due a uno, almeno per quantità di locali. Il travaglio di questo Paese è dunque tutto in vista della sua nuova dislocazione asiatica e in funzione delle sue relazioni con il Giappone. La fine della guerra fredda ha cambiato scenario, desideri e cultura dell'Australia. Al laborismo cosmopolita che ha retto il Paese fino alla caduta del Muro di Berlino, ha fatto seguito un genere di governo liberale nei confronti delle esigenze della natura e dell'ambiente, ma di fatto isolazionista, con l'occhio sempre più volto verso il Giappone, la Cina e Hong Kong, che per gli australiani è un tormento. Hong Kong è «piena di cinesi che credono di essere inglesi, ma che sono sempre e soltanto dannatamente cinesi», per dirla con l'uomo della strada. E questa gente prima o poi verrà a bussare alla porta dell'Australia pretendendo di vedersela aprire. Un agente di Borsa britannico che vive a Hong Kong con cui ho viaggiato da Darwin (estremo Nordl a Sydney (estremo Sud, come da Copenhagen a Tripoli), mi ha detto: «Quei poveri disgraziati si illudono, perché pensano che il loro passaporto britannico sia davvero un lasciapassare per l'Occidente e si sentono sicuri: pensano che se Pechino si comporterà male, loro se ne andranno sdegnati con i bagagli, la gabbia dei canarini e la cappelliera per stabilirsi in Australia. Sa quanti ne prenderanno di quei poveracci, gli australiani? Neanche uno». E infatti la questione «che cosa faremo un giorno di tutti quei cinesi» è ampiamente dibattuta nei pomeriggi piovosi e umidi di questo freddo inverno di luglio. L'Australia fa dunque ormai definitivamente parte della comunità oceanica pacifica ed è interessante guardare il mondo da questo emisfero facendo uso delle carte geografiche che vendono qui le cartolerie: rispetto alle nostre, capovolte. L'Italia con la Padania al posto della Sicilia. E' la prospettiva australiana, che fa del Cile un Paese lontano ma confinante. Fuori fa freddo, è buio, è inverno. Il sole tramonta alle cinque. Viene giù quella pioggerella gelida da caminetto acceso. Infatti nella hall hanno il caminetto acceso. E davanti al caminetto fa chiasso, un chiasso caldo, allegro, natalizio, una famiglia di giapponesi. Il Giappone è ovunque e suscita gli stessi sentimenti e ricordi che provoca l'egemonia tedesca nell'Est europeo: su quegli stessi Paesi cioè che furono dalla Germania conquistali, assimilati, nullificati. Qui il ricordo dei bombardamenti giapponesi non si è cancellato e anzi la vitalità giapponese è la radice costante di tutti i sentimenti positivi e negativi della comunità australiana che ha assaporato il terrore dell'invasione, dell'annichilimento. In questi giorni gli australiani devono decidere se abrogare la bandiera britannica, l'Union Jack, dall'angolo estremo della loro, cosi come hanno fatto i canadesi che hanno inserito la loro foglia di acero. La maggioranza degli australiani dichiara di essere per la vecchia bandiera. Ma non è detto, perché questo Paese è alla ricerca di una identità radicalmente nuova. Quindi nessuna meraviglia se per Olimpiadi del 2000, questa la scadenza per il possibile cambio di bandiera, il koala, o il canguro o l'aborigeno, diventeranno il nuovo simbolo dell'Australia. Paolo Guzzanti (1-Continua) Il grande incubo: un esodo da Hong Kong «Piena di cinesi che credono d'essere inglesi e invece restano maledettamente cinesi» Ma resta vitale il rapporto con il Giappone Armi facili, legami con Londra Nel Paese tutto è in discussione C'è unanimità su una sola cosa Tutelare natura e aborigeni Un'affollata via di Hong Kong. E' diffuso il timore che col ritorno della colonia alla Cina (nel '97) si riversi sull'Australia un'ondata di milioni di rifugiati Qui accanto un aborigeno australiano e nella foto grande un canguro in versione cittadina L'animale contende al koala il ruolo di simbolo del Paese [FOTO AFPJ

Persone citate: Fratti, Machiavelli, Paolo Guzzanti