«Pacciani storia di un'infamia»

Per scrivere il volume ha abbandonato la magistratura Francesco Ferri: «L'inchiesta è stata condotta con prevenzione e con confessioni estorte a tutti i costi» «Faccioni, storia di un'infamia» Libro-denuncia del giudice che assolse il contadino FIRENZE. Una pagina dopo l'altra, un capitolo dopo l'altro e un libro dopo l'altro. Quasi un'alluvione e non c'è da sperare che sia finita. Al centro, una storia molto particolare, orrenda e, per questo, affascinante: quella del «Mostro di Firenze» che poi si è intrecciata a quella dell'imputato Pacciani Pietro. Già otto libri, ognuno con la sua tesi rispettabile. E ora è pronto il nono. L'autore si chiama Francesco Ferri, fino a poco tempo fa era un magistrato, ma non uno qualsiasi: era stato lui a mandare assolto il Pietro, al termine di un processo d'appello che rimarrà nella memoria. La sera del 13 febbraio scorso, martedì, giorno di santa Fosca, in meno di un minuto con voce forte e serena demolì anni di indagini e un processo durato mesi. Sette righe per sintetizzare oltre centomila pagine messe insieme con fatica dagli inquirenti. E di quelle sette righe, una sola era quella importante: «Assolve il Pacciani da tutte le imputazioni per le quali ha riportato condanna in primo grado per non aver commesso il fatto». Difficile credere che il suo parere sulla presunta colpevolezza del Pietro, come quello del giudice a latere Francesco Carvisiglia, non sia stato decisivo in camera di consiglio. E aveva vinto, Pacciani era uscito assolto, ma qualcosa dev'essergli rimasto di traverso, visto che ha sentito il desiderio irrefrenabile di gettarsi a capofitto nientemeno che in un libro. Il libro del suo esordio letterario, avvenuto in età più matura di quella di Gesualdo Bufalino: il dottor Ferri ha compiuto settant'anni, ed ha appena lasciato la magistratura dov'era entrato nel 1955. L'impressione è che abbia scritto di getto. Del resto, il giudice Ferri era uno noto, a Firenze, per avere, come si dice, la penna felice. Era sempre un piacere, si diceva, leggere le sue sentenze. Il titolo del suo primo libro, forse, l'ha pensato in un pomeriggio, e non è per niente equivoco, anche se può prestare il fianco all'ironia più velenosa: «Il caso Pacciani, storia di un colonna infame?». Quando alla corte d'assise d'appello fiorentina cominciò il processo Pacciani, il dottor Ferri aveva appena fatto un conto preciso: e si era reso conto che rischiava di compiere i 70 durante il dibattimento. Così aveva chiesto la proroga. Che, naturalmente, gli era stata concessa. Ora spiega: «Poi ho deciso di scrivere il libro e per farlo in piena libertà ho preferito lasciare la magistratura». E si è tuffato nel nuovo lavoro. Al termine del quale, ha scelto quel titolo che ricorda una brutta pagina per le toghe raccontata da Alessandro Manzoni che, forse, è giusto ricordare come un autore sul serio al di sopra di ogni sospetto. Ma perché, quella decisione? «Ho sentito il bisogno di farlo per l'atteggiamento tenuto dagli inquirenti e un po' anche per come si è comportata la stampa, che tranne che in rare occasioni, non ha svolto un ruolo critico, non ha saputo tenere le distanze». Curioso, questo appunto, quando si pensa che non ha accettato alcun colloquio con i giornalisti, né durante né subito dopo il dibattimento. «Quanto ai riferimenti all'opera di Manzoni, il paragone non è lusinghiero, ma ho ritenuto che ci fosse un parallelo con l'inchiesta, condotta a mio giudizio con prevenzione, corredata da confessioni a tutti i costi». Insomma, nell'opera prima di Francesco Ferri serpeggia la polemica ancora rovente con la procura della Repubblica di Firenze. L'ultimo giorno del processo, il pubblico ministero in aula, Piero Tony, quello che aveva proposto l'assoluzione, chiese alla corte di ascoltare quattro testimoni il cui nome era stato «secretato». Erano Alfa, Beta, Gamma e Delta. Dai racconti di Beta, al secolo Giancarlo Lotti, è scaturita la così detta inchiesta bis, quella che coinvolge gli «amici di merende», il Vanni Mario, detto Torsolo, il Faggi Giovanni, quello dei vibratori d'avorio, lo stesso Lotti e, forse, qualcun altro. La corte rispose picche: o i nomi o non se ne fa niente. Poi.c'è chi ha accreditato il sospetto che la procura, e soprattutto il procuratore Piero Luigi Vigna, abbiano giocato d'azzardo: non avrebbero ceduto sui nomi per non far interrogare i testimoni, in quel momento ancora «immaturi». Vigna ha sempre respinto con forza questa ipotesi: «Nessun complotto, nessun piano del genere», ha assicurato. Alla notizia che sulle sue spalle Francesco Ferri stava per rovesciare nientemeno che una colonna, e per di più infame, il Granduca, com'è chiamato il procuratore, ha commentato: «Conoscevo i giudici che esprimevano il loro pensiero nelle sentenze, Ferri non è Manzoni, comunque ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Ma lei come l'ha presa, male? E' amareggiato? «Amarezza? No, per carità, ne sono state dette di peggio». Vincenzo Tessandori Per scrivere il volume ha abbandonato la magistratura Il procuratore Vigna «Non è Manzoni ma è libero di esprimersi» COSI' PARLO' IL GIUDICE PACCIANI «Anche un essere moralmente spregevole come Pacciani ha diritto a un processo giusto e a una semenza giusta, quale quella di primo grado non è stata, perché mancavano le necessarie prore-. I NUOVI TESTIMONI «Non poterò più sopportare in silenzio di fronte ad avvenimenti che sono fuori dalla logica e dalla giustizia. Tutto si basasti due nuovi testimoni. Ma nessuno si è preso la briga di andare a San C'asciano, dove tutti si mettono a ridere quando si parla di questi due-. L'ex giudice Francesco Ferri e Pietro Pacciani in un momento del processo

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