Amarcord di quell'ultima notte di Guido Vergani

20 settembre 1958: addio a case, «maìtresses» e salottini d'attesa 20 settembre 1958: addio a case, «maìtresses» e salottini d'attesa Amarcord di quell'ultima notte QUANDO le chiusero, nessun quotidiano mandò un cronista a raccontare l'ultima notte, quella del 20 settembre 1958. Avevano molto dibattuto sui prò e sui contro della legge Merlin che, dopo 10 anni di tira e molla, di democristiani bagno-maria, era stata definitivamente approvata. Avevano dato spazio al catastrofismo di chi si era battuto contro la senatrice socialista anche in modo becero, chiamandola «madre dei Gracchi»: un figlio era la blenorragia, l'altro la sifilide di cui si paventava un aumento a guglia che non ci fu per via della penicillina. Avevano ospitato dotte disquisizioni dei favorevoli allo sbaraccamento delle case e della legislazione varata da Cavour perché Napoleone III, erede del Bonaparte che aveva dato diritto di cittadinanza alle «maisons» dell'Ottocento, non avrebbe mandato truppe ad aiutare la nostra terza guerra d'indipendenza se non avessero potuto contare sul conforto di una prostituzione bonificata dal flagello venereo e sottoposta a visite mediche. I quotidiani erano stati generosi di attenzione al problema, ma, quella notte, furono pudichi: nessun reportage dal fronte della disfatta delle «maìtresses», dei tenutari, dei «placeurs». Solo Giovanni Comisso, straordinario scrittore, fece un «viaggio» nelle «maisons» di Treviso, la sua città, e, qualche set¬ timana dopo, descrisse per «Il Mondo» la mestizia del «si chiude». Ultime signorine, ultimi fantaccini, ultimo grido, «Giovanotti, in camera», della «maitresse» per sollecitare a «peccare» i flanellatori, coloro che anche, in quella estrema notte, erano andati al casino per riempire qualche ora un po' goliardicamente, lustrandosi gli occhi sulle afrodisiache, scollacciate nudità delle «lavoranti». Anche un altro settimanale, «l'Espresso» affidò a un suo bravo inviato, Mino Guerrini, il «servizio» su quel gran finale. Ma l'articolo, a rileggerlo oggi, è palesemente spurio, inventato comunque. Da allora nelle rievocazioni delle case chiuse, il crepuscolarismo, il dolciastro l'hanno fatta da padroni, anche se chi ricordava e narrava era civilmente contrario al ritorno dello Stato lenone, delle quindicine ghettizzate, della sessualità ridotta a catena di montaggio (in certi casini di battaglia, di «passo», le ragazze dovevano prestarsi anche a 7080 rapporti al giorno) e dello sfruttamento legalizzato non solo della marchetta, della «doppia» ma di ogni necessità delle «ospiti» che non potevano uscire: il corredo, il rinnovo del guardaroba, qualche piccola golosità, le medicine, tutto era caricato di una mediazione, di una dichiarata cresta. A colorare di un colore che non c'era il ricordo non può essere neppure la memoria del sesso. Le case non erano luoghi di dannazione, di complicate lussurie, di un vincente machismo, ma sfogatoi di timidezze, di frustrazioni matrimoniali, di frigidità anche maschili, di una sessualità sbrigativa, sanitaria. A intenerire la memoria non può neppure essere l'evocazione degli arredi, delle statue di fauni ingrop¬ panti, dei salottini d'attesa perché, al di là del milanese San Pietro all'Orto, del romano Avignonesi, del Saffo di Firenze, i nostri casini non stavano alla pari dei parigmi «Chabanais» e «One Two Two» che offrivano a Edoardo VII, non ancora re d'Inghilterra, una particolare poltrona per inosabili posizioni del kamasutra, e alla società maschile europea stanze simili a fienili per chi voleva amori campestri, stanze «igloo» per un sesso esoticissimo e stanze «vagon-lit» con annessi scuotimenti da binari per gli appassionati delle avventure ferroviarie. Forse a illanguidire la memoria è il rimpianto non delle «maisons», ma della giovinezza. Fatto sta che una «trouble tendresse», come la definiva lo scrittore francese Carco, sta al centro di romanzi, cose viste e vissute, testimonianze sui casini a partire dall'ottocentesco racconto di Maupassant, «La maison Tellier», per arrivare a gran parte dei ricordi raccolti da Giancarlo Fusco nel libro «Quando l'Italia tollerava»: memorie, fra gli altri, di Ercole Patti, di Mario Soldati, di Dino Buzzati. Il controcanto, quello che descrive lo schiavismo, lo sfruttamento intensivo, lo squallore di quelle esistenze e di quei clienti, ha meno voci: un Goncourt con «Elise» e due giornalisti, l'ottocentesco Valera e il novecentista Pietrino Bianchi. Guido Vergani

Luoghi citati: Firenze, Inghilterra, Italia, Treviso