La paura segreta degli industriali di Massimo Giannini

La paura segreta degli industriali La paura segreta degli industriali «In Italia i sindacati comandano più di Prodi» LE OMBRE SUL GOVERNO MILANO I L partito di Romiti? Ma non diI ciamo fesserie!». Marco Tronchetti Provera, dopo una tirata più profonda alla sua malboro, sbuffa via il fumo della sigaretta e quello delle illazioni: i convegni di «Liberal», come quello di ieri sul capitalismo nella seconda Repubblica riuniranno pure intorno a un tavolo, al quale siede anche il presidente della Fiat, i migliori cervelli dell'economia italiana e buona parte dell'intellighenzia laica e cattolica del Paese, ma non hanno obiettivi politici immediati, non nascondono progetti partitici di sorta, né occultano presunti e sempre imperscrutabili «disegni» dei Poteri Forti che, alle iniziative organizzate dalla rivista di Ferdinando Adornato, partecipano in massa. Eppure ieri, a passeggiare nel «parterre de rois» del meeting milanese, si coglieva qua e là un pizzico di nostalgico rammarico dei «capitalisti» per quegli anni d'oro nei quali gli industriali, un partito, lo erano davvero, nei fatti: il «Quarto Partito», come diceva De Gasperi, senza il quale non si risana né si rilancia il Paese. Tra un intervento e l'altro dal «pulpito» del Four Seasons, si potevano toccare con mano il disagio, l'insoddisfazione e l'insofferenza dei cosiddetti Poteri Forti per le convulsioni e le confusioni del quadro politico. Che vede proprio quei Poteri, per la prima volta dopo qualche anno, scoprirsi improvvisamente più Deboli. E debilitati oltre tutto da una recente manovrina dalla quale sono usciti con le ossa rotte. Perché? In un angolo, tra un bicchiere di prosecco e un riso alle erbe, se lo spiegano l'economista Geminello Alvi e il presidente della Banca nazionale del lavoro Mario Sarchielli: «Non c'è niente da fare, in questo momento le redini del Paese le tengono in mano la Banca d'Italia e i sindacati». «Da un lato spiega Alvi - c'è l'asse tecnocratico di Ciampi e di Fazio, che hanno lanciato la sfida anti-inflazione, dall'altro lato c'è la forza di persuasione, il potere di interdizione della Cgil, che fa breccia facilmente nella delegazione pidiessina al governo». Insomma, è la spiegazione più estesa di un concetto, o meglio di un timore che Giorgio Fossa, presidente della Confindustria, va ripetendo da giorni: nonostante le polemiche di questi ultimi giorni sul Documento di programmazione economica, a Palazzo Chigi rischia di non comandare più Romano Prodi, ma direttamente Sergio Cofferati. Che dal palco del congresso cigiellino alza la voce, minaccia lo sciopero, e convince D'Alema a promettere «modifiche in Parlamento al Dpef», costringe il premier ad accorrere a Rimini ad assicurare «l'attenzione del governo», e Veltroni a promettere che «sul 2,5% di inflazione programmata per il '97 dobbiamo trovare una soluzione». E trova subito la sponda, magari nemmeno richiesta, di Fausto Bertinotti che già annuncia con minacciosa e prevedibile puntualità il voto contrario di Rifondazione sul Dpef. E questo, agli industriali, non piace affatto. Ma non tanto per questioni di potere, quanto per gli effetti nefasti che un simile atteggiamento del governo può avere, ai fini delle dolorose e difficili scelte che aspettano il Paese nei prossimi tre anni. E' ancora Tronchetti Provera, sbuffando l'ennesima boccata di fumo, a dar corpo al disagio dei «capitalisti» accorsi all'appello di «Liberal»: «Il problema di questo governo sta tutto qui - dice il presidente della Pirelli in questa ambiguità, in queste contraddizioni di queste ultime settimane: il commissario Monti, una persona seria e competente, pone un problema oggettivo, con il percorso di risanamento indicato dal governo non si rientra nei parametri di Maastricht insieme al gruppo di testa. Poi Ciampi ricorda che, se ci sono le condizioni, si può fare tuia Ulteriore manovra di aggiustamento, per agganciarci per tempo a quel gruppo di testa dei Paesi europei. E il giorno dopo D'Alema frena e dice "è solo un'ipotesi". Ecco, io dico che così, con queste ambiguità, non si può più andare avanti. I sa¬ crifici sono necessari, per tutti: prima si fanno e meglio è, più si rinviano più saranno pesanti...». Ma Prodi, tutto questo, lo ha capito? Silvio Sircana, il suo ex portavoce e consigliere politico durante la campagna elettorale, ora consigliere di amministrazione della Hill fr Knolt.on, passeggia per il giardino del Four Seasons con Ernesto Pascale, amministratore delegato della Stet, e assiciua: «Certo che lo ha capito, non sottovalutate Romano, lui è un passista, vedrete clic rimetterà tutti in riga, i sindacati e il Pds...». Ma intanto, prima che il premier maturi questa convinzione e la traduca in atto, gli industriali si tonnentano. Ai «nuovi» governanti hanno tante cose da chiedere: una riscrittura della «costituzione» economica che riconosca la cultura e i valori del mercato come propone Romiti, un limite alla soffocante «intermediazione dello Stato» e un ripensamento degli «eccessi di solidarietà» come propone Carlo Callieri, una politica delle infrastrutture come propone Lorenzo Necci. Ma ora è finita la stagione dei governi tecnici, più feconda perché nel suo dispiegarsi era saltata la mediazione politica. Ora che c'è un governo politico con forti coloriture di sinistra, e dunque fatalmente più incline a recepire i bisogni c le istanze del sindacato, gli industriali si vedono costretti a ripensare anche i modi della propria rappresentanza. E si convincono che forse, in una fase in cui il sistema politico-istituzionale è ancora in pieno divenire, con schieramenti che si fanno e si disfano tra il mattino e la sera, è forse prematuro cambiare la filosofia confindustriale di questi ultimi anni, che il nuovo leader Fossa vorrebbe ispirata al ritorno ad un lob- hismo più «tecnico», e meno orientata alla supplenza politica. Luigi Abete, ex presidente di viale Astronomia, ne è convinto: «Posto elio sia possibile farlo anche in un Paese politicamente normale e bipolare, noi non possiamo comunque rinunciare, oggi, a farci portatori di valori generali, non possiamo non proporre anche un'idea di società, quando rivendichiamo con forza l'esigenza delle privatizzazioni e della liberalizzazione. E' anche così che, al tavolo della concertazione con governo e sindacati, si può mantenere e far rispettare l'equilibrio tra le parti». Emma Marcegaglia, leader dei giovani imprenditori, ascolta e condivide, pur appartenendo alla «nouvelle vaglie» confindustriale. E allora, in questo tentativo di far valere le ragioni della modernizzazione, e di farle pesare al di là delle sedi tradizionali in cui avviene lo scambio tra governo e parti sociali (attualmente un po' squilibrato), ecco che tornano utili, e in prospettiva diventano condizionanti, anche i convegni trasversalissimi di «Liberal». «Ma non chiamateci partito - si schermisce ancora Adornato, stanco ma raggiante alla fine del meeting milanese - siamo un centro permanente di promozione riformista. Non difendiamo i Poteri Forti né gli interessi di parte. Se diamo fastidio, è perché siamo una lobby nata e cresciuta al di fuori dell'egemonia della Sinistra storica. Se diamo fastidio è perché, in un Paese in cui ci sono ancora tante resistenze culturali, vogliamo essere lui forte gruppo di pressione per una reale svolta liberale dello Stato». Massimo Giannini

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