L'illusione del POPOLO sovrano di Edmondo Berselli

«Non esisterà mai uno strumento per rivelare la volontà comune» Dall'Uomo Qualunque al Liberalismo: un saggio di Riker ci fa rileggere cinquantanni di politica italiana Lillusionep@pQLQ sovrano Alcide De Gasperi INQUANT'ANNI di «ReI ' pubblica dei partiti» hanno I impedito l'affermarsi di I i una visione politica populi\è I sta. Le maglie del sistema partitico hanno stretto la società italiana in modo tale che la «volontà del popolo» è sempre stata incanalata, mediata, trattata politicamente dai partiti. Per questo risultano sorprendenti quei richiami, come quello di Romano Prodi a Robin Hood, che sembrano instaurare una specie di rapporto immediato, caldo, fra il leader politico e la sua «tribù». Per trovare nella politica italiana un'eco sinceramente populista occorre risalire all'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma nella demagogia di quel giornale, fondato a Roma nel 1944, e poi nell'esperienza politica successiva, ciò che si coglieva era il rifiuto della politica, dei suoi strumenti e degli uomini che la incarnavano. «Non abbiamo bisogno che d'essere amministrati: quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Basta un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce, né Selvaggi né Nenni né il pio Togliatti né l'accorto De Gasperi». Se alla voce populismo si controlla invece la definizione che ne ha dato uno dei maggiori scienziati politici americani, William H. Riker, nel volume Liberalismo contro populismo (di recente tradotto dalle Edizioni di Comunità con una introduzione di Daniela Giannetti), il qualunquismo non otterrebbe la dignità dell'aggettivo «populista». Scomparso nel 1993 e noto per avere pubblicato nella prima metà degli Anni Sessanta The Theory of Politica Cóhalitions, un saggio che per la prima volta applicava la teoria dei giochi all'analisi delle coalizioni politiche Riker vede nel populismo qualcosa di diverso: «L'essenza del populismo è riassunta in questa coppia di proposizioni: 1 ) le decisioni politiche devono riflettere la volontà di un popolo come mi tutto; 2) il popolo è libero quando la sua volontà è legge». II fatto è che secondo la lettura radicale di Riker non esiste uno strumento capace di rivelare la volontà del popolo. C'è una sorta di vizio ontologico della democrazia: gli individui sono coerenti, la società no. Le elezioni decidono quale alternativa vince, ma sono sempre soggette al sospetto di fondo, ineliminabile, che una diversa alternativa, potenzialmente migliore, meglio organizzata, avrebbe potuto battere quella risultata vincente. E se allora non sappiamo realmente qual è la volontà popolare, non c'è alcuna possibilità di tradurla immediatamente in legge. Al contrario l'«essenza dell'interpretazione liberale del voto» consiste nell'idea che esso consente la sostituzione degli eletti, cioè la punizione degli uomini politici che hanno scontentato gli elettori. Liberalismo dunque come concezione «debole», o addirittura debolissima, minimalista della democrazia, ma in quanto tale opposta all'idea «forte» del populismo, che rischia di trasformarsi in tirannide non appena una minoranza pretende di realizzare in modo coercitivo la volontà popolare presunta, o allorché scatta un cortocircuito mistico che salda leader e popolo in un'esperienza plebiscitaria. Ad applicare questi schemi alla vicenda italiana dal 1946 in avanti, la storia del potere democristiano può essere in una certa misura reinterpretata. Erede almeno nominale del «popolarismo» sturziano, la de non ha mai ceduto a un'intenzio¬ ne populista: perché sapeva di rappresentare un universo sociale troppo composito per essere semplificato in un programma unitario di governo. Fra le istanze che la de poteva tradurre politicamente facendosene portatrice immediata c'era la discriminante anticomunista; ma tutto il resto era il riflesso della sua matrice interclassista, e quindi del suo variegato insediamento sociale. La de poteva invocare le ragioni ultimative del mandato popolare per la sua identità di baluardo contro il pei; sugli altri piani, era il partito dei cavalli di razza, delle correnti, dello Stato sociale interpretato in versione assistenziale, corporativa, settoriale; ben più che l'interprete di una coralità nazionale, era un partito della mediazione fra interessi differenti. Palmiro ogliatti Sta di fatto che la storia politica della Prima Repubblica va quasi tutta sotto il segno dello scambio fra i partiti piuttosto che sull'applicazione di programmi sanzionati dal risultato elettorale. Negoziato politico continuo e contrattazione parlamentare a usura anziché traduzione del programma elettorale in immediati atti di governo. Forse il solo uomo politico democristiano che avesse una visione in senso lato populista della politica fu Amintore Fanfani, con una de capace di sovrapporsi esattamente alla società italiana e di rappresentarla tutta attraverso articolazioni fondamentalmente corporative. Il primo vero strappo rispetto alle convenzioni di questa democrazia contrattata fu operato da Bettino Craxi. Giocando all'interno del bipartitismo dei due partiti maggiori, la de e il pei, Craxi tentò di guadagnare una posizione di vantaggio facendo concorrenza a entrambi. Grazie a un classico esercizio di «partnership rivale», divenne contemporaneamente capo del governo e capo dell'opposizione alla de. Per ottenere questo scopo usò senza esitazioni il ruolo del suo partito come portatore di un'alternativa interna all'equilibrio politico, alternativa basata sull'asserzione che il psi fosse il rappresentante di ceti moderni «emergenti», desiderosi di trovare nella politica un rapido riscontro delle loro aspirazioni, delle loro preferenze e dei loro desideri. Proprio qui risiedeva mia delle ragioni principali dell'insofferenza di Ciriaco De Mita per il craxisnio. Individare il proprio elettorato come qualitativamente migliore rispetto ai concorrenti era, secondo il leader irpino, qualcosa di profondamente antidemocratico. Sotto questa luce non ha quindi tutti i torti Paolo Flores d'Arcais a cercare il fi¬ lo del populismo italiano lungo un'esperienza che conduce da Craxi a Berlusconi. Malgrado le ripetute dichiarazioni di liberalismo e moderazione, il capo di Forza Italia è entrato in politica, nel 1994, dando corpo a un'ispirazione esplicitamente populista. Il Cavaliere alludeva a un'Italia nuova, stanca delle liturgie politiche «consociative», capace di produrre e di guadagnare. Conquistato il governo, ha via via precisato questo tratto populista con immagini come l'«unto del Signore», l'uomo politico divinizzato dalla volontà espressa dal popolo nelle urne e con la creazione di una specie di fondamentalismo del sistema maggioritario, secondo cui la vittoria elettorale attribuisce ai vincitori una missione di comando. Chi sono oggi i populisti italiani? Uno degli indiziati maggiori è naturalmente Gianfranco Fini, per la cultura «sociale» di cui è figlio e per la lunga adesione del suo partito d'origine a criteri non liberali. Ma la presenza in An di tratti naziona- L'ex premier Bettino Craxi listi e perfino autarchici, l'ostilità al mercato, la funzione corporativopopulista di rappresentanza di alcuni ceti (borghesia notabilare, pubblico impiego) non è sufficiente secondo un intellettuale di destra come Marcello Veneziani a fare del partito postfascista un campione del populismo, per l'incapacità a vivere fino in l'ondo la fusione «bollente» di socialità, cattolicesimo, tradizione culturale italiana, personificazione della leadership. Probabilmente e più populista di Fini, se si vuole, il socialista anarchico Fausto Bertinotti, continuamente alla ricerca di una connessione fra il molo parlamentare di Rifondazione comunista e la mobilitazione di piazza. Tuttavia il leader populista per eccellenza, non occorre dirlo, è Umberto Bossi. Non c'è nessuno come lui che riesca a riferirsi a enli'.a misteriose, come il «popolo» del Nord, o la Nord-nazione, e a tramutarle in realtà spendibili politicamente. La forza di Bossi, 0 il suo bluff populista, prende l'avvio proprio dalla svalutazione del dato elettorale, che attribuisce alla Lega percentuali minoritarie nel Nord; e nell'evocazione di una volontà popolare per ora nascosta, che si rivelerebbe al momento buono, cioè nel momento fatale della secessione, con una forza unanime e travolgente. Quello di Bossi è un esercizio di altissima acrobazia, visto che da un lato propugna il separatismo come opportunità democratica, cioè espressione diretta della sovranità popolare, mentre dall'altro contesta le consultazioni elettorali, cioè un tipico esercizio democratico, come irrilevanti rispetto all'opzione massimalista, la secessione, di cui lui solo conosce il consenso di fondo nella cosiddetta Padania. E infatti di Bossi si parla come di un animale politico, si allude al suo fiuto, alla capacità di percepire e interpretare umori diffusi. Un analista come Riker non accetterebbe mai ragionamenti su queste basi; e fra una bacchettata e l'altra darebbe il colpo definitivo a Bossi spiegandogli che il molo più efficace del federalismo americano non è la separazione delle funzioni tra il governo centrale e 1 governi locali, ma il decentramento dei partiti politici che rende impossibile la loro egemonia a livello nazionale. Cioè non è una formula magica, ma un vincolo costituzionale. Anzi, a dirla tutta, uno di quei vincoli che impediscono all'onda populista di dilagare. Edmondo Berselli «Non esisterà mai uno strumento per rivelare la volontà comune» Alcide De Gasperi Da De Gasperi a Craxi, da Fini alle urla di Bossi e a Robin Hood Palmiro Togliatti

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